Autore: Giorgio Cavalli

Apeirogon. Uno sguardo poliedrico al dramma israelo-palestinese

Recensione di Colum McCann, Apeirogon, Feltrinelli, Milano 2021/2022

Come quelle figure che si compongono e si scompongono tra infiniti giochi di luce e di colori. Così deve apparire l’inestricabile intreccio delle terre aride di Palestina, verdi d’Israele, sotto gli occhi ignari d’innumerevoli stormi di uccelli migratori che sui cieli di Levante percorrono strade aeree cercandovi un momentaneo ristoro e trovando però, troppo spesso, trappole di morte. E così appare quella stessa terra agli occhi di Colum McCann, nato nel 1965 a Dublino dove è cresciuto, e magnetizzato dall’intrigo israelo-palestinese al seguito di numerosi viaggi in Terra Santa. Un apeirogon, letteralmente un poligono dai lati infinitamente numerabili. È questa la metafora che descrive, senza mai poterlo spiegare fino in fondo, l’infinito intreccio di torti e di ragioni che quasi meccanicamente spingono due popoli ad odiarsi. Due popoli le cui ingiustizie, subite e restituite consegnano alla vorticosa spirale di azione-reazione, di violenze gratuite il cui peccato d’origine sta – ci lascia capire l’autore attraverso i suoi protagonisti – nella negazione e nella reiterazione della Nakba: la «catastrofe» per il popolo palestinese, che corrisponde invece – come in un’immagine rovesciata nello specchio – alla «resistenza» e alla «rinascita» per il popolo israeliano. Due sguardi opposti, due linguaggi opposti che a loro volta si frantumano al loro interno in infinite spaccature politiche e ideologiche senza che vi sia un’apparente soluzione. Per sua stessa natura il linguaggio, ripete l’autore con Borges, non può essere bloccato in un luogo e pertanto non è in grado di «cogliere la pura simultaneità di tutte le cose»[1]. Con una scrittura scabra, frantumata e pirotecnica, in questo libro pubblicato in inglese nel 2020, McCann ci invita a guardare dentro al caleidoscopio di infinite storie, antiche e recenti, di infinite informazioni, spigolature, semplici reiterazioni che esplodono senza un apparente senso unitario e che pure riappaiono quando meno te l’aspetti per intrecciare nuovi nodi tra fili sotterranei di una storia dai lati «infinitamente numerabili» e che compie inesorabile il suo corso. Simile allo scavo carsico del fiume Giordano che, perdendosi e ritrovandosi, attraversa due laghi-mari – il lago di Galilea e il mar Morto – per poi riaffiorare, antico testimone nel suo travagliato fluire, del dividersi e dell’intrecciarsi di due mondi opposti destinati però a confrontarsi e a convivere, nonostante tutto.

D’altra parte un irlandese come McCann, sia pure non di Belfast, sa almeno di sponda cosa significa dover vivere la quotidiana precarietà, la quotidiana paura dettata dal perverso intreccio di guerra civile e terrorismi. Dentro a questo intreccio di storie nasce l’imprevedibile incontro di Rami Elhanan, un israeliano del ceto medio, che ha servito Israele in due guerre, ma che ora ama sfrecciare per le strade di Palestina con la sua moto piuttosto che su un carro armato, gerosolimitano da sette generazioni ma discendente da un nonno sfuggito in Ungheria alla Shoah, e di Bassam Aramin, palestinese cresciuto con la sua famiglia in una grotta vicino a Hebron dignitosamente arredata, che nel giro di una notte fu spazzata via dall’irruzione dell’esercito israeliano con le sue jeep e i suoi fucili. Bassam, uscito dopo sette anni di prigione per avere lanciato da ragazzo due granate contro una jeep militare, si sposa e ha dei figli, ma in un martedì qualunque Abir, la sua bambina di dieci anni, uscita da un negozio dove aveva acquistato delle caramelle, viene uccisa davanti a scuola dalla pallottola di gomma, sparata da un soldato israeliano di diciott’anni.

Rami e Bassam, incontratisi quasi per caso, stringono amicizia partecipando alle attività di Combattenti per la Pace (www.cfpeace.org), un’associazione che dal 2005, inizialmente in modo clandestino, unisce tra loro soldati israeliani e militanti palestinesi che dopo essersi reciprocamente combatutti cominciano a pensare che deve pur esistere per la loro terra un’altra via, un altro destino. Decidono così di combattere l’Occupazione e di uscire dalla spirale di violenza con la forza noviolenta della parola. «Un israeliano e un palestinese che viaggiano insieme. Non solo. Un israeliano contro l’Occupazione. Un palestinese che studiava l’Olocausto. Come tenere insieme le due cose»[2].

Otto anni dopo la morte di Abir, una mattina a Gerusalemme Smadar, la figlia quattordicenne di Rami, viene devastata da un attentato suicida alla bomba organizzato da Hamas. Quella pallottola di gomma, dice Bassam al suo amico Rami, era rimasta nell’aria per ben otto anni. «Una storia che si trasfigura in un’altra»[3]. L’amicizia tra i due si rafforza, ed entrambi ora si ritrovano insieme anche nell’associazione Parents’ Circle Family Forum (www.theparentcircle.org), che riunisce palestinesi e israeliani che intendono trasformare il loro dolore non in vendetta, bensì in arma di dialogo e di pace. Entrambi girano per scuole, biblioteche, centri culturali, conferenze sulla pace, si recano in Germania, in Sud Africa, in Irlanda, incontrano personalità mondiali, Bassam incontra il senatore Kerry alla Casa Bianca. A tutti e ovunque parlano di un possibile futuro in cui i due popoli possano convivere sulla medesima terra, alla pari. Un sogno, contro il quale non vi sono però altre alternative che possano dirsi davvero realistiche. Dice Rami:

Per quanto sembri strano, in Israele non sappiamo cosa sia davvero l’occupazione. Sediamo nei caffè e ci divertiamo, e non dobbiamo farci i conti. Non abbiamo la minima idea di cosa significhi dover superare un checkpoint ogni giorno. O vedere confiscata la terra della nostra famiglia. O svegliarci con un fucile puntato in faccia. Abbiamo due ordini di leggi, due ordini di strade, due ordini di valori. Alla maggior parte degli israeliani questo sembra impossibile, una bizzarra distorsione della realtà, ma non è così. È che noi, semplicemente, non lo sappiamo. Per noi la vita è bella. Il cappuccino è buono. La spiaggia è libera. L’aeroporto è lì a due passi. Non abbiamo alcun accesso all’effetto che fa vivere in Cisgiordania o a Gaza. Nessuno ne parla. Non ti è permesso mettere piede a Betlemme, a meno che tu non sia un soldato. Guidiamo lungo le nostre strade percorribili solo dagli israeliani. Scansiamo i villaggi arabi. Costruiamo strade sopra e sotto di loro ma solo per farne gente senza volto. Forse la Cisgiordania una volta l’abbiamo vista, durante il servizio militare, o magari la vediamo di tanto in tanto in tv, il nostro cuore sanguina per mezz’ora, ma non sappiamo quello che succede là veramente. Finché non accade il peggio. E a quel punto ti si capovolge il mondo. La verità è che non può esserci occupazione che sia compassionevole. Non esiste proprio. È impossibile. Ha a che fare con il controllo. Forse dobbiamo aspettare che il prezzo per la pace si alzi a un punto tale che la gente comincerà a capire[4].

Dice Bassam:

Da bambino pensavo che essere palestinese, musulmano, arabo, fosse una punizione divina. E me la portavo dietro come un grosso peso intorno al collo. Da bambino non fai che chiedere perché, ma da adulto, di chiedere perché te lo sei ormai dimenticato. Accetti e basta. Hanno distrutto le nostre case. Accetti. Ci hanno ammazzato attraverso i checkpoint. Accetti. Ci hanno detto di ottenere permessi per cose che loro hanno ottenuto gratis. Accetti. Ma in prigione cominciai a riflettere sulle nostre esistenze, sulla nostra identità, in quanto arabi, e questo mi portò a riflettere anche sugli ebrei. E a quel punto compresi che l’Olocausto era reale, era successo per davvero. E cominciai a pensare, all’inizio con riluttanza, che gran parte della mentalità degli israeliani doveva essere scaturita da quello, decisi così di provare a capire chi fosse davvero quella gente, quanto avesse sofferto, e perché nel ‘48 avesse scaricato la sua oppressione su di noi, e avesse continuato a farlo, rubando le nostre case, portando via la nostra terra, infliggendoci la nostra Nakba, la nostra catastrofe. Noi, i palestinesi, eravamo diventati le vittime delle vittime. Volevo saperne di più […]. E dopo un po’ ebbi una conversazione con una delle guardie. Mi domandò: «Come può un tipo come te diventare un terrorista?»[5].

In prigione Bassam cominciò a studiare l’ebraico, e poi lesse i testi di Gandhi, di Martin Luther King, e di Mubark Awad, palestinese teorico della nonviolenza. Fu rilasciato nel 1992 e si sposò nel 1994, mentre erano in corso gli illusori Accordi di Oslo, che presto si sgretolarono. Scoppiò così la seconda Intifada, col suo strascico di terrorismo e di vendette. Commenta Bassam:

I peggiori errori politici, strategici e morali che abbiamo mai commesso […]. Cominciai a rendermi ancora più partecipe, dicendo che era necessario cambiare i nostri metodi. Lessi sempre più su nonviolenza e impegno politico. Pian piano mi resi conto che la violenza era proprio quello che i nostri oppositori volevano che noi praticassimo. Preferiscono la violenza perché con quella possono fare i conti. Sono enormemente più evoluti con la violenza. È la nonviolenza a essere difficile da gestire, che sia praticata da israeliani o da palestinesi o da entrambi. Li confonde. Non fraintendetemi, non avevo rinnegato quello in cui credevo. Il mio obiettivo era quello di sempre e che sempre sarà fino al giorno della sua realizzazione: la fine dell’Occupazione israeliana. Vedete, l’Occupazione agisce in ogni aspetto della tua vita, ti sfinisce, ti amareggia in un modo che nessuno da fuori riesce davvero a capire. Ti sottrae il domani. Ti impedisce di andare al mercato, all’ospedale, alla spiaggia, al mare. Non puoi camminare, non puoi guidare, non puoi raccogliere un’oliva dal tuo stesso albero che si trova dall’alta dall’altra parte del filo spinato. Non puoi nemmeno alzare lo sguardo al cielo. Lassù hanno i loro aeroplani. Possiedono l’aria che sta sopra e il suolo che sta sotto. Per seminare la tua terra devi avere il permesso. Con un calcio spalancano la tua porta, prendono il controllo della tua casa, mettono i piedi sulle tue sedie. Tuo figlio di sette anni viene preso e interrogato. Nemmeno puoi immaginarlo. Sette anni. Fai che sei padre per un minuto e pensa a tuo figlio di sette anni che viene preso davanti ai tuoi occhi. Bendato. Ammanettato coi lacci ai polsi. Condotto al tribunale militare di Ofer. La maggior parte degli israeliani nemmeno lo sa che succedono queste cose. Non che siano ciechi. È che non sanno quello che viene fatto in loro nome. Non viene permesso loro di vedere. I loro giornali, le loro televisioni queste cose non gliele dicono. Non possono entrare in Cisgiordania. Non hanno alcuna idea di come viviamo. Ma questo succede ogni giorno. Ogni singolo giorno[6].

Rami e Bassam sono persone reali, come reali sono queste loro parole, che troviamo al centro del libro e che McCann ha trascritto direttamente dalla loro voce registrata in una serie di interviste rilasciate a Gerusalemme, New York, Gerico e Bei Jala. Da queste interviste si dipanano in modo simmetrico storie remote e prossime che come per circoli concentrici si avvicinano sempre più all’indicibile, conducendo, quasi per un destino inevitabile, alla morte – e poi all’interminabile, reiterato lutto – di due giovanissime vittime, due bambine piene di vita, cariche di futuro, di sogni e progetti recisi da una somma infinita di casualità e di intenzionalità assassine, infinite come infinite sono le ragioni e i torti di due popoli costretti a convivere sulla medesima terra.  

Cinquecento pagine mirabili, di un romanzo che non è solo romanzo, di un saggio che non è solo saggio. Cinquecento pagine di storie che si intrecciano, si dipanano, si allontanano e si riavvicinano, mostrandoci una terra che ogni giorno ripropone a se stessa l’alternativa tra promessa e disperazione. Cinquecento pagine dentro ai nodi dell’inestricabile matassa della questione israelo-palestinese, che non ci consegnano però un trattato di politica che conduca a prendere posizione per gli uni contro gli altri. Queste pagine ci restituiscono piuttosto il grido vivo dell’umano che da entrambe le parti emerge nonostante tutto, aprendo vie di speranza prorio là dove – oggi più che mai – questa parola sembra voler essere esiliata per molto tempo ancora.  

Una domenica di prima mattina, mentre il villaggio palestinese di Anata ancora dormiva, una squadra di 33 israeliani, vestiti in modo sobrio, passò il checkpoint ed entrò con diverse auto e un pullmino fin davanti alla scuola di Abir, dove la bambina era stata uccisa proprio da uno dei loro ragazzi in divisa. Silenziosamente si misero al lavoro fino a sera. Tornarono in un centinaio nel fine settimana successivo, lavorando tutto il giorno sotto il controllo di un pallone sonda israeliano. Sullo zoccolo di cemento già solidificato misero in posa il tappeto di gomma e un palo col canestro da basket. Fu il primo e unico campo giochi di Anata. Alla fine dei lavori gli amici di Rami e di Bassam posero un cartello: Il giardino di Abir. Abir significa, in arabo antico, “fragranza del fiore”. Smadar significa, nel Cantico dei Cantici, “il grappolo della vigna”, cioè il fiore che si schiude.

Rumi, il poeta ispiratore del sufismo, scrisse un giorno: «Ben oltre il giusto e lo sbagliato c’è un campo, ti aspetterò là»[7]. Agli albori di questo anno 2024, il mondo ha bisogno più che mai di artigiani di pace che come Rami Elhanan e come Bassam Aramin, e come i loro figli Ygal e Araab che già ne raccolgono il testimone, ci indichino la strada verso quel campo.

C’è una unicità formale in questo libro intriso di scienza come di poesia, di immaginazione come di realtà, nel quale McCann mescola infiniti contributi di amici sparsi nel mondo – primi fra tutti Rami e Bassam – in un turbinio di aneddoti storici, notizie di cronaca, immagini fotografiche, informazioni fisiche, chimiche, ornitologiche, geografiche e perfino vuoti grafici che si rimandano in 1001 paragrafi – come le Mille e una notte – che si distendono simmetricamente in ordine crescente e poi decrescente incontrando antichi schemi matematici, come per esempio il misterioso gioco a specchio prodotto dai paragrafi 220 e 284, «numeri amicabili» le cui somme dei divisori si rimandano l’un l’altro[8].

Le forme dei matematici, come quelle dei pittori e dei poeti, devono essere belle; le idee, come i colori o le parole, devono combinarsi in modo armonioso. La bellezza è la prima prova: la brutta matematica non ha alcun posto nel mondo[9].

Apeirogon è un libro costruito a spirale, che rinnovando all’infinito il dolore per la morte di due bambine ci conduce, quasi in modo ossessivo, a prendere atto dell’impossibilità della via del conflitto permanente. Una spirale che si avvita faticosamente intorno ad un unico bisogno di ritrovamento dell’umano, un libro che vuole già essere in qualche modo esso stesso profezia di pace, non solo futura. Come l’autore fa dire ad Araab Aramin, che aveva quattordici anni quando spararono a sua sorella Abir: «Noi non parliamo della pace, noi facciamo la pace. Pronunciare insieme i loro nomi, Smadar e Abir, è la nostra semplice, genuina verità»[10]. Una verità purtroppo ben poco condivisa sia da parte di chi vede in questa forma di amicizia tra vittime una sorta di svendita della causa palestinese[11], sia da parte di chi invece pone la “sicurezza” dello stato di Israele al di sopra di ogni considerazione umanitaria.


[1] Colum McCann, Apeirogon, Feltrinelli, Milano 2022, p. 505.

[2] Ivi, p. 450.

[3] Ivi, p. 501.

[4] Ivi, p. 258.

[5] Ivi, pp. 268-269.

[6] Ivi, pp. 271-272.

[7] Ivi, p. 273.

[8] Ivi, pp. 119, 152, 367, 400.

[9] Ivi, p. 369. Citazione di un saggio del 1940 di G.H.Hardy.

[10] Ivi, p. 416. Da questa idea di unire i nomi di una vittima israeliana e una vittima palestinese è nata The Abir-Smadar Foundation.

[11] Si veda la dura critica mossa a questo libro da parte della scrittrice palestinese Susan Abulhawa, che su «Al Jazeera» dell’11 marzo 2020, criticando la cessione dei dirittti a Spielberg per la realizzazione di un film, scrive: «È chiaro che McCann abbia fatto lunghe ricerche, incluse lunghe conversazioni con i personaggi principali di questo libro e forse, presentando una storia vera, ha tentato di indicare la via in merito ai temi etici che riguardano l’appropriazione. Ma c’è un messaggio coloniale complessivo che si presta alla propaganda sionista» (in: https://zeitun.info/2020/03/16/apeirogon-un-altro-passo-falso-colonialista-delleditoria-commerciale).

Una cicatrice sul volto e nell’anima del cittadino romano Marco Claudio Acuto

Un godibile romanzo storico di Lorenzo Roberto Quaglia, con tante informazioni sulla vita quotidiana degli antichi romani e qualche salutare domanda aperta sulle origini del cristianesimo. Consigliato per i ragazzi delle scuole medie e del primo biennio delle superiori.

Arrivai a Cesarea qualche giorno prima delle Idi di marzo, all’epoca in cui Tiberio era Cesare Augusto già da sedici anni e in Giudea era prefetto Ponzio Pilato.

Così prende inizio il piccolo romanzo di Lorenzo Roberto Quaglia, impiegato di banca a Milano con il gusto della scrittura. Già forte di una serie di fortunati gialli, l’autore si cimenta ora con la storia antica, rivelando una approfondita conoscenza della vita quotidiana e della struttura della civiltà romana. Il protagonista, Marco Claudio Acuto, è un senatore romano che, giunto alla vecchiaia, nella sua villa di Taormina torna con la mente ad una lontana vicenda occorsagli appunto nel sedicesimo anno dell’impero di Augusto. Un buon cittadino romano deve avere i piedi ben saldi sul terreno, e le tante fole che circolano tra il popolo ebreo non possono certo scuotere le sicurezze guadagnate da Roma nella sua lunga storia: la filosofia val bene per i greci, che nelle loro divisioni non seppero costruire un impero, e neppure difenderlo, quando il grande Macedone ne edificò uno per loro, scioltosi però come neve al sole dopo la morte prematura di Alessandro. Fu poi Roma, col suo pragmatismo e con la sua arte politica e militare, a raccoglierne l’eredità. Dunque, che i popoli d’Oriente coltivino pure le loro fiosofie, i loro culti e le loro tradizioni, a patto però che siano sottomessi e non interferiscano con la politica di Roma. Questa era la certezza granitica di Marco Claudio Acuto e di suo fratello Valerio Claudio Bellator, comandante della guarnigione di Cesarea, quando, per un imprevedibile intreccio del caso, Claudio Acuto che da Roma era appena giunto in Palestina per far visita al fratello, si ritrovò ad assistere ad uno strano processo, nel quale ebbe luogo un confronto teso tra il prefetto e l’accusato:

‘Che cos’è la verità?’, gli domandò Pilato incrociando lo sguardo di sua moglie Claudia Procula che stava seguendo l’interrogatorio vicino alla colonna del portico. Anche lei, come molti altri, portava sul volto i segni di chi stava assistendo ad un evento particolare, straordinario, tragico. Appariva scossa e in alcuni momenti si muoveva di scatto come se il suo corpo fosse attraversato da brividi.

“La verità è dal cielo”, rispose Gesù a Pilato.

“Non c’è verità sulla terra?”

Era una domanda fin troppo facile per Pilato, cresciuto nella certezza granitica della politica e nello scetticismo dominante nel suo tempo. Il narratore non ce lo dice, ma ci lascia immaginare il tono della voce del prefetto, leggermente sprezzante, sufficientemente ironica per disdegnare questi profeti che vengono a parlare di verità quando a malapena gli uomini riescono a riconoscere che cosa sia utile per se stessi e per l’Impero. Ma quel nazareno, con la tunica sgualcita dalle violenze inflitte dalla soldataglia, malfermo sui sandali consumati da giornate di cammino, era lì a sfidarlo ancora, senza abbassare lo sguardo penetrante dietro agli zigomi tumefatti. Era lì davanti, a tener testa al prefetto, con quella sua indomita supponenza di profeta giudeo. Così, rompendo il lungo silenzio, gli rispose:

“Tu vedi come quelli che dicono la verità sono giudicati da coloro che hanno autorità sulla terra”

Per un istante, Pilato sembrò spiazzato dalla riposta di quell’uomo, così apparentemente lontano dalla figura del rivoluzionario, ma il cui sguardo era magnetico, certamente capace di affascinare e attrarre a sé masse di disperati, di gentaglia senza arte né parte, capace di tutto…

Il prefetto prese tempo per riflettere, dopo chiese a Gesù:

‘Cosa farò di te?’

‘Quello che ti è stato assegnato’

Certo! Quello che gli era stato assegnato: non c’era bisogno che quel profeta glielo dicesse! Così Pilato fece quello che doveva fare, o meglio, quello che non avrebbe dovuto fare, che nessuna legge romana gli avrebbe mai chiesto di fare, ma che gli era comunque assegnato dalla difficile situazione politica, da un sinedrio ribollente e pretenzioso, e per di più in un momento molto delicato, in cui gli zeloti rimestavano nell’ombra, pronti a colpire quando meno te l’attendevi. Gli zeloti sono, nel romanzo di Quaglia, una presenza ineffabile, come una minaccia sospesa nell’aria di cui nessuno osa parlare apertamente.

Come poi andò la storia noi lo sappiamo, ma Marco Claudio Acuto ancora non poteva saperlo, e il narratore-protagonista ci guida dentro alle progressive scoperte di quei giorni febbrili: così egli si trovò, nel giro di pochi giorni, dinanzi ad una storia letteralmente incredibile, umanamente sconvolgente. Quaglia ci accompagna con la sua scrittura dentro alla scoperta da parte di Marco Claudio Acuto di un evento inatteso e incomprensibile, che lui ha potuto intercettare solo di sfuggita, per sentito dire, e che passa attraverso i racconti di persone che si presentano ai suoi occhi del tutto assennate e ragionevoli e che proprio per questo sconcertano il protagonista, che non riesce a darsi ragione di come certi racconti di miracoli e resurrezioni possano venire da persone così stimabili: persone di rango e ragionevoli, come è Giuseppe di Arimatea, o altre più umili ma concrete, come Pietro il pescatore, o più raffinate e sensibili alla cultura, come sembra essere Giovanni. Fino ad incontrare Lazzaro, che dice di sé di essere morto e poi risorto per opera di quel Gesù che però, proprio lui, è finito croce come l’ultimo dei ladri e degli assassini.

Blaise Pascal diceva che l’apice a cui può giungere l’umana ragione è l’apertura al Mistero che lo supera. Questo concetto di apertura e di “allargamento” della ragione a qualcosa che non è prodotto o dedotto da essa stessa è uno dei maggiori lasciti dell’insegnamento di papa Benedetto XVI, su cui ci sarà molto da lavorare ancora per comprenderne il senso più profondo. Quell’espressione di Pascal, infatti, la si può intendere in modo ambivalente: o come rinuncia a un dispiegamento pieno della ragione, nel senso di un fideismo simmetricamente opposto al razionalismo; oppure come riconoscimento di una ragionevolezza del Mistero dell’esistenza e della rivelazione che accade per fede, attraverso un incontro donato, eccezionale e tuttavia umano. In questa seconda accezione sta l’idea di una ragione “allargata”, tesa a riconoscere il senso dell’avvenimento cristiano senza mai rinunciare alle proprie domande, aperta a risposte umanamente imprevedibili e incontrollabili (nel senso preciso dell’impossibilità di un preteso “dominio” sulla realtà). È con questo sguardo che un uomo del nostro tempo può ancora lasciarsi stupire dall’eccezionalità della persona storica di Gesù, come papa Benedetto ha suggerito nel suo Gesù di Nazaret, o come testimoniò Vittorio Messori nel suo Ipotesi su Gesù, libro che ne segnò la conversione dal laicismo radicale alla fede.

Con questo piccolo agile romanzo, in un centinaio di pagine Lorenzo Roberto Quaglia pone il lettore nell’orizzonte di questa stessa domanda sulla ragionevolezza della fede cristiana: Marco Claudio Acuto, che si reca in Palestina per far visita al fratello centurione nei giorni agitati della cattura e della messa a morte di Gesù, e che solo per un singolare caso viene a trovarsi nelle stanze della prefettura, come in un lampo incrocia lo sguardo del condannato e questo semplice fatto, accaduto in un processo usuale e perfino banale per un nobile romano, lo segnerà per tutta la vita: da principio nella forma di un rifiuto razionalisticamente chiuso alla ragionevolezza della fede che pure intravede in tutta la sua forza spirituale in Giuseppe di Arimatea, in Pietro, in Giovanni, in Lazzaro e nelle tre Marie. Egli cerca e incontra queste donne e questi uomini per capire meglio, di più, ciò che ha solo intravisto in un istante: vuole incontrarli per capirne l’origine di quella loro nuova certezza, così incredibile eppure così solida, sul senso della vita e della morte. E anche quando quegli eventi sono ormai lontani negli anni, nonostante permanga in lui una ragione ancora chiusa e misurante, tuttavia lo sguardo penetrante di quel giudeo incrociato un giorno davanti al prefetto di Gerusalemme lo perseguiterà per il resto della sua esistenza, tenendo aperta in lui una domanda che non si sarebbe mai più ad acquietata.

Fino a un finale inaspettato, con qualche colpo di scena…

Il libro, arricchito in appendice da un glossario dei termini e dei modi di dire latini presenti nel testo, si presta ad un lavoro didattico su più piani: nell’ambito della storia per un’introduzione alla vita quotidiana sotto l’Impero romano; nell’ambito dell’insegnamento della religione cattolica per un approccio al tema della ragionevolezza della fede secondo la categoria della fede come avvenimento; nell’ambito della letteratura per avviare i ragazzi al significato e ai diversi registri stilistici della scrittura creativa, evidenziandone gli aspetti strutturali: autore e narratore, protagonista e personaggi minori, fabula e intreccio, prolessi e analessi, ecc. Il libro può dunque essere un ottimo strumento per un lavoro multidisciplinare.

L’autore: Lorenzo Roberto Quaglia è nato nel 1966 a Milano, dove si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi, e dove lavora come impiegato di banca. Nel 2010 segue un primo corso annuale di scrittura creativa, cui ne seguono altri, in particolare quelli organizzati dalla Scuola Flannery O’Connor presso il Centro Culturale di Milano (CMC), tenuti da Andrea Fazioli e Francesco Napoli. Dal 2011 scrive romanzi, per lo più di genere poliziesco.

Il libro: Lorenzo Roberto Quaglia, L’indagine che cambiò la vita di Marco Claudio Acuto, cittadino dell’Impero romano, Ed. Youcanprint, Lecce 2022.

Kharkiv: la bellezza ferita

Memoria di un viaggio del 2016 nell’Ucraina orientale

Nella foto: Kharkiv 2016, piazza della Costituzione

Nell’ottobre 2016 mi recai per qualche giorno a Kharkov, Kharkiv in ucraino. Una città bellissima, russofona ma non russofila, nella quale tra la gente che cercava di costruire un proprio destino pacifico giungevano gli echi di un fronte di guerra già attivo da due anni nel Donbass. Vi andai in quei giorni con un popolo di pellegrini: russi, bielorussi, ucraini, italiani, per recare nella cattedrale ortodossa un dono prezioso della diocesi di Milano: erano le reliquie di don Carlo Gnocchi – portate di persona da don Maurizio Rivolta, rettore del santuario a lui dedicato -, “un beato per l’Ucraina”, come lo aveva definito il filosofo Aleksand Filonenko. Don Carlo Gnocchi su quella terra aveva accompagnato da cappellano militare i suoi alpini, a vivere e a morire.

Kharkov, Cattedrale cattolica, 2016: ingresso alla mostra dedicata a don Carlo Gnocchi

Tornai da quel breve, intenso viaggio, nel quale si era anche celebrato un convegno sulla disabilità, con negli occhi la bellezza di un mondo di frontiera che cercava una propria identità nel prisma delle nazioni d’Europa, dove si respirava il senso della libertà ritrovata dopo la lunga cappa sovietica, dove anche la “comunità volante” – un’altra efficace definizione dell’amico Filonenko – sapeva riunire in un cuor solo e in un’anima sola giovani e adulti, ortodossi e cattolici, convenuti dall’est e dall’ovest con l’unico ideale di testimoniare una rinnovata presenza cristiana in un’Europa concepita con Giovanni Paolo II dall’Atlantico agli Urali.

Kharkov 2016, davanti cattedrale cattolica alla cerimonia di consegna delle reliquie di don Gnocchi

Tra questi pellegrini vi era padre Mauro Lepori, abate generale dell’Ordine Cistercense, don Francesco Braschi, allora presidente di Russia Cristiana, padre Amvrosij Makar, parroco archimandrita della vivace chiesa ortodossa S. Ambrogio di Milano, Constantin Sigov, filosofo di Kiev, Aleksandr Filonenko, filosofo di Kharkov, il suo amico Franco Nembrini, scrittore ed educatore, Dmitry Strotsev, poeta bielorusso conosciuto anche in Russia, Silvio Cattarina, un uomo che dedica la sua vita a risollevare, come un padre, tanti nostri figli caduti nelle sabbie mobili delle droghe, Irma Missaglia, che con i suoi collaboratori inventa idee sempre nuove per costruire sostegni tecnologici alla vita delle persone disabili, e poi lo splendido coro SAT, giovani universitari che non vogliono lasciar morire la bella tradizione dei canti degli alpini, e tanti altri ancora, più o meno noti, compresi gli educatori i ragazzi disabili di Emmaus. Il convegno aveva per titolo “un cuore più forte della guerra”, e in quell’occasione venne presentata la pubblicazione del “Dolore innocente” di don Carlo Gnocchi, tradotto in ucraino e in russo.

Kharkov, visita guidata alla città con Anna Carminati. Tra gli altri don Maurizio Rivolta e Silvio Cattarina

Voglio parlare anche di Katia Klyuzko, Francesca Perrucchini, Anna Carminati e di tutte le altre splendide educatrici e traduttrici del progetto “Figli della Speranza”, attraverso il quale nacque una bellissima collaborazione di Famiglie per l’Accoglienza con gli amici ucraini per offrire un’ospitalità estiva di sollievo nelle famiglie italiane ai bambini e ai ragazzi sfollati con le loro famiglie dal Donbass verso altre città dell’Ucraina. Fu un’esperienza che durò quattro anni, fino alla chiusura del Covid. Poi la guerra.

Ricordo che tornai da quel viaggio con la bellezza negli occhi e nel cuore. Agli amici raccontai di avere visto qualcosa che mi parve essere come fu la prima Chiesa degli Apostoli allo stato nascente. Che ne è ora, di tutto questo?

Kharkov, 2016. Allestimento in memoria dei caduti ucraini nel Donbas

Simone Weil, nella sua opera teatrale incompiuta “Venezia Salva”, racconta di una congiura seicentesca ordita dagli spagnoli per distruggere Venezia. Ma il cuore di un capo dei congiurati, Jaffier, si mosse a tanta bellezza di quella città, e la congiura fallì. Non c’è stato, nella corte del nuovo zar, né poteva esserci, uno Jaffier che si sia lasciato commuovere dalla bellezza di Kharkiv, ma restano comunque tanti Jaffier sconosciuti dentro al cuore stesso dei popoli d’Europa, dall’Atlantico agli Urali.

Kharkov, 2016, monastero ortodosso

Il paradigma teologico panrusso dello scontro tra Oriente e Occidente

Recentemente la stampa italiana ha evidenziato un intervento del patriarca Kirill dello scorso 21 settembre, che enfatizzava il ruolo della fede ortodossa nel presente conflitto. In particolare colpiva il fatto che egli indicasse la fede come un fattore favorevole al coraggio in battaglia. Peraltro, il tema del rapporto fede-guerra ha attraversato anche la tradizionale dottrina cattolica in rapporto alla “guerra giusta” (ancora presente oggi, con chiare linee di demarcazione, nel Catechismo della Chiesa Cattolica[1]) ed enfatizzato ancora nella Grande Guerra da personalità che ebbero un ruolo importante nella storia: si pensi a don Angelo Roncalli, allora cappellano militare, e a padre Gemelli, che in seguito avrebbe fondato l’Università Cattolica. Tuttavia, mentre già dagli inizi del secolo scorso il magistero cattolico, da Benedetto XV fino a papa Francesco, passando dalla decisiva Pacem in Terris di Giovanni XXIII, ha avuto un’importante evoluzione verso la dissociazione della fede dalla violenza e il rifiuto sempre più marcato della guerra, dobbiamo osservare che un analogo percorso è mancato o perlomeno si è interrotto al livello più alto del magistero della Chiesa ortodossa russa: in essa, almeno nella gerarchia, permane una visione del rapporto stato-nazione-religione che oggi opera nella direzione di uno scontro aperto tra l’Oriente, inteso in senso panrusso, e un Occidente percepito come luogo di scisma e discordia.

Siamo andati allora a cercare sul sito del Patriarcato di Mosca e di tutta la Russia il contenuto di quel discorso di Kirill del 21 settembre 2022, scoprendo che nella stessa giornata egli tenne non uno, ma due discorsi, entrambi riconducibili direttamente o indirettamente alla guerra in atto. Nel primo discorso del mattino, pronunciato a Veliky Novgorod in occasione del 1160° anniversario della «призвание варягов» (“vocazione dei Varangiani”)[2] dell’862 d.C., Kirill cercò di individuare alcuni tratti nazionali che connotano la Russia fin dalle origini e afferma infine due principi, “confermati dalla storia”:

  1. la realtà sociale è un riflesso dello stato spirituale delle persone e il frutto dei loro sforzi comuni” tanto che “il declino della vita spirituale del popolo portava inevitabilmente alla discordia nella vita dello Stato”;
  2. La vita e il benessere dello Stato non è responsabilità solo di alcuni leader politici, ma causa comune di tutto il popolo”

Ivan Il’in: da Hegel a Hitler, a Putin

Questi principi indicano uno stretto legame tra la vita spirituale di un popolo e la determinazione come stato. È questa una prospettiva ampiamente percorsa da Hegel e riproposta dal filosofo Ivan Il’in, un controrivoluzionario “russo bianco”, esiliato da Lenin sulla “nave dei filosofi” del 1922 e approdato in Germania, dove divenne sostenitore dell’ascesa di Hitler. In seguito approdò a quello che fu definito come un fascismo russo e cristiano”[3]. Ivan Il’in è considerato da alcuni uno dei principali ispiratori dell’ideologia nazionalista di Putin, che nel 2009 fece consacrare la sua tomba dopo il trasferimento delle sue spoglie in Russia. Kirill lo cita esplicitamente in questi termini: “L’eccezionale pensatore russo Ivan Il’in ha scritto correttamente che una sana statualità è impossibile senza un senso della propria dignità spirituale. La dignità spirituale del nostro popolo è indissolubilmente legata alla fede ortodossa, nella quale gli antenati trassero ispirazione e coraggio per superare le difficoltà e andare avanti nonostante tutte le prove.

La sana statualità deriva certamente dalle peculiarità della mentalità delle persone e serve come una sorta di continuazione di esse”. Si vede bene, qui, come lo spirito del popolo russo è identificato da Kirill fin dalle origini con l’ortodossia russa. Questo spirito fonda uno Stato, la cui forza e unità consiste nella fedeltà all’ortodossia stessa. È una concezione di stato e di nazione indissolubilmente legati e indistinguibili che trae la sua origine nella tradizione slavofila, la quale vedeva nell’Occidente la fonte di tutti gli scismi, di tutti i materialismi e di tutti i cedimenti dello zarismo. Kirill terminò questo suo primo discorso con queste parole: “Il cristianesimo ha plasmato i tratti migliori del nostro carattere nazionale: capacità di reagire e misericordia, amore per la verità e generosità. Con l’adozione della fede ortodossa, la vita spirituale del popolo si è trasformata e si è rinnovata anche la sua autocoscienza di stato, che d’ora in poi ha cercato di organizzare la vita sociale sui valori evangelici. La ricerca di relazioni basate sulla giustizia e sul rispetto reciproco, la volontà di proteggere i deboli e aiutare gli oppressi, la pace e la lealtà alla parola data: questi e altri principi morali hanno ampiamente determinato la politica perseguita dallo stato in più di mille anni di storia russa. La Russia è stata custodita e costruita dalla memoria di Dio. Possano queste parole di Il’in, piene di profonda verità interiore, trovare sempre conferma nella nostra vita e operare a beneficio della Patria. Prego che non dimentichiamo mai le origini spirituali della civiltà russa, che rimaniamo fedeli a Cristo e alla Sua Chiesa, che il Signore, vedendo la nostra forte fede e amore per la Patria terrena, benedica con la pace il popolo russo e lo visiti con molti grazie e doni”.

Con queste premesse, nel pomeriggio il Patriarca affrontò il tema sopra ricordato del rapporto tra fede e coraggio in battaglia in un secondo discorso che tenne presso il Convento Zachatievsky di Mosca in ricordo della battaglia di Kulikovo (8 settembre 1380). Con quella battaglia l’esercito russo, consacrato in quell’occasione alla Santissima Theotokos (“Madre di Dio”), affrontò sulle rive del Don i Tataro-Mongoli e i Polacco-Lituani, determinando la disfatta del nemico ad opera del principe di Mosca, Dimitrij, che da allora prese il nome di Donskoj. Così Kirill: “Perché la Russia è rimasta così determinata? Perché la Russia ha mantenuto la sua lingua, la sua fede, la sua cultura e anche sotto la dominazione straniera, la nostra vita nazionale ha continuato a svilupparsi. Ora chiediamoci: perché? C’è solo una risposta: la fede ortodossa, la Chiesa ortodossa era la custode della vita spirituale delle persone. La gente ha capito che puoi ritirarti da qualsiasi cosa, ma non puoi mai ritirarti dalla fede (…). Naturalmente, tutto questo era connesso con la fede più profonda del nostro popolo. Perché la fede rende una persona molto forte, perché trasferisce la sua coscienza dalla vita quotidiana, dalle preoccupazioni materiali alla cura dell’anima, per l’eternità. E quando questa dimensione legata all’eternità è forte in una persona, allora diventa invincibile, perché smette di aver paura della morte. Vale a dire, la paura della morte spinge un guerriero fuori dal campo di battaglia, spinge i deboli al tradimento e persino a ribellarsi al fratello.

Ma la vera fede distrugge la paura della morte, e quindi tutta la meschinità e il tradimento umani, ed è un grande sostegno per le persone nella costruzione della loro vita comune. Ecco perché la fede è così importante per la creazione della vita, della società e dello stato. E se le persone rifiutano questo potere e fanno affidamento solo sul potere del diritto o sul potere di gruppi e partiti politici, allora questo tipo di unità è sempre temporanea: il gusto per i partiti e gli ideali politici scompare e tutto inizia a sgretolarsi. E quindi è importante che alla base della nostra vita nazionale, come grande priorità, ci sia la fede, e con essa un sistema di valori cristiani che elevino l’anima e conducano una persona che crede con convinzione alla vita eterna, e quindi invincibile.

Lo scandalo dello scisma in Ucraina

È a questo punto che, come d’emblée, il discorso di Kirill, che guardava alle antiche origini della Russia e alle sue storiche battaglie fondative, da celebrativo si fa politico e viene immediatamente rivolto alla presente guerra in Ucraina, le cui radici sono cercate nello scisma ecclesiastico che ha rotto l’unità della nazione ortodossa russa: “Oggi la nostra Patria, la Russia, la Russia storica sta attraversando dure prove. Sappiamo cosa sta succedendo in Ucraina. Sappiamo quale pericolo incombe sul popolo ucraino, che sta cercando di riformattarsi, (переформатировать), per fare uno Stato contrario alla Russia, ostile alla Russia. È molto importante che nei nostri cuori non ci sia la sensazione che vi sia un nemico. Dobbiamo pregare oggi perché il Signore rafforzi i sentimenti fraterni dei popoli della Santa Russia, affinché l’unità della nostra Chiesa diventi sempre più forte, che è davvero una garanzia di pace nelle distese della Russia – ecco perché il crollo del nostro Paese è iniziato con tentativi di rompere la Chiesa, creare scismi e separazioniIl nemico sapeva che questo punto doveva essere colpito. Ma sebbene abbiamo subito perdite, e uno scisma pericoloso, peccaminoso e sgraziato sia sorto in Ucraina, allo stesso tempo la fede ortodossa è preservata lì, e i nostri fratelli e sorelle, arcipastori e pastori sono uniti e, credo, continuano a pregare con noi attorno al trono del Signore e per la fine della guerra intestina e per il ripristino della pace nelle distese della Russia storica”. Merita di essere osservato con grande attenzione il linguaggio utilizzato da Kirill: in Ucraina, afferma Kirill, non c’è un “nemico”, poiché essi sono chiamati all’unità russo-ortodossa, ma subito dopo tale affermazione è capovolta: in Ucraina vi è un nemico, che ha voluto uno scisma che reca un vulnus all’unità della nazione, e con ciò stesso all’unità del popolo (stato-nazione) russo.

Nella conclusione di questo suo discorso religioso-patriottico, Kirill rivendica due punti fondamentali:

  • Non c’è unità della nazione senza unità spirituale-religiosa;
  • La guerra è nata dallo spirito scismatico, e solo nel ritorno dei popoli della Grande Russia storica alla comunione ortodossa sarà possibile una vera pace.

L’illusione di una prospettiva storica solo “ecclesiastica”

Il Patriarca russo cerca anche di affermare, con questa sua visione, un ruolo specifico della Chiesa e della fede: un ruolo che una visione storica e secolare, troppo laicista o materialista, rischia di trascurare e ridurre: “Questa escursione nella storia – precisa Kirill – è svolta secondo il nostro punto di vista ecclesiastico. Questo punto di vista non è presente nella scienza storica secolare, ma erroneamente, perché è questo approccio alla storia che mette in evidenza la cosa più importante: la dimensione spirituale nella vita delle persone e dello Stato, senza la quale la vittoria, nel venir meno della fede e dello spirito, diventa impossibile. Pertanto, oggi preghiamo il Signore ancora e ancora che Egli pacifici la Russia, fermi i conflitti intestini, in modo che la Santa Russia ritorni ad essere una cosa sola – nel senso che nessuna discordia e divisione tormenti gli eredi di quella Santa Russia unificata. E oggi, mentre ricordiamo la vittoria del nostro popolo nella battaglia di Kulikovo, chiediamo che, senza particolari battaglie e spargimenti di sangue, avvenga una vera vittoria, che ci restituisca l’unità spirituale, la pace, la prosperità e l’amore reciproco. Possa il velo della Regina del Cielo estendersi sulla Sua eredità – sulla Santa Russia. Possano i santi di Dio, ugualmente glorificati e venerati in Russia, Ucraina, Bielorussia e altre parti della Russia storica, pregare oggi per noi, gli indegni, e armarci dei pensieri giusti, delle parole giuste, ma, soprattutto, delle azioni giuste attraverso le quali poter portare pace e prosperità nella terra della Santa Russia. Amen”.

Non va dimenticato, peraltro, che qui siamo molto più sul terreno dell’ideologia che della realtà: non sembra che si possa dire che le chiese della vasta Russia siano tutte strapiene di fedeli: la crisi della fede e il secolarismo, dopo la lunga cappa del comunismo e dopo  l’irrompere di nuovi modelli di vita, toccano anche quelle terre: secondo statistiche aggiornate a qualche anno fa, a fronte di un 42,5% di popolazione ortodossa, è elevato nella Federazione Russa il numero sempre in crescita degli agnostici e dei musulmani (questi al 10%) e non mancano neppure animisti, buddisti e seguaci di altre religioni.

Tuttavia proprio questa visione ideologica, che sembra perfino voler ritagliare alla Chiesa una sua funzione specifica e autonoma rispetto ad altre considerazioni della “storiografia secolare”, di fatto impedisce alla Chiesa ortodossa russa una vera autonomia nei confronti degli interessi statuali.

La mancata autonomia della Chiesa russa dipende da due fattori, diversi ma convergenti:

  • La tradizionale dipendenza delle Chiese ortodosse dallo Stato;
  • La dipendenza culturale di questa prospettiva dal pensiero slavofilo, che tende ad identificare lo spirito nazionale della Santa Russia con una sola specifica e particolaristica confessione religiosa, identificata come l’unica vera e l’unica possibile, impedendo di pensare il mondo russo come luogo della molteplicità e del pluralismo religioso.

Possiamo allora chiederci: come potrebbe uscire la Chiesa ortodossa russa da questo suo auto-confinamento in un ruolo tutto sommato secondario, che fa della sua fede una religione politica, fonte ideologica del potere putiniano? Come è possibile dunque che una tale ideologia nazional-religiosa possa evolvere in una direzione autonoma e pluralista?

Una prospettiva possibile per ripensare il rapporto tra Oriente e Occidente

La risposta potrebbe non dover necessariamente passare per una presunta occidentalizzazione della Chiesa ortodossa russa, ma piuttosto attraverso l’ascolto, all’interno di quella pur variegata realtà, di quelle voci che già al tempo dell’Impero zarista avevano cercato di offrire alla fede ortodossa un orizzonte cristiano più ampio, aperto alla trascendenza e dunque non immanentista (non hegeliano), ma bensì universalistaantiperfettista e indipendente, capace di valorizzare la pluralità delle Chiese d’Oriente e d’Occidente nella comune tensione ad una più alta e universale comunione tra i cristiani che non debba passare attraverso la violenza degli stati.

Per un’ecclesiologia universalista: Vladimir Solov’ëv

Possono allora soccorrerci alcuni testi del filosofo Vladimir Sergeevič Solov’ëv (Mosca 1853 – Uzkoe 1900), composti tra il 1888 e il 1889, in reazione alle ideologie slavofile diffuse nel tempo[4]. Egli delinea alcuni concetti ecclesiologici fondamentali, che ancora oggi consentirebbero, se pienamente accolti, di pensare un’ortodossia universalista, di pari passo con l’analogo cammino di maturazione ecclesiale percorso nel secolo scorso e nel tempo presente dal magistero della Chiesa cattolica.

Universalismo e molteplicità della Chiesa universale

Scrive Solov’ev nel 1889: “La Chiesa è una e indivisibile, ma questo non le impedisce di contenere delle sfere diverse che non devono essere separate ma che devono comunque essere nettamente distinte, perché nel caso contrario non si riuscirà mai a capire nulla nel passato e nel presente, e neppure si potrà fare qualcosa per l’avvenire religioso dell’umanità”[5]

Trascendentismo e antipefettismo religioso e politico

La perfezione assoluta – scrive ancora il grande filosofo russo – può appartenere soltanto alla parte superiore della Chiesa, che ha già fatto sua ed ha definitivamente assimilato la pienezza della grazia divina (la Chiesa trionfante o il regno della gloria). Tra questa sfera divina e gli elementi puramente terreni dell’umanità visibile, c’è l’organismo divino-umano della Chiesa, invisibile nella sua potenza mistica e visibile nelle sue manifestazioni attuali, identicamente partecipe della perfezione celeste e delle condizioni dell’esistenza materiale. È la Chiesa propriamente detta ed è appunto di questa Chiesa che si tratta nel nostro caso. Essa non è perfetta in senso assoluto, ma deve possedere tutti i mezzi necessari per progredire con sicurezza verso l’ideale supremo – l’unione perfetta di tutte le creature in Dio – attraverso ostacoli e difficoltà senza numero, fra le lotte, le tentazioni e le cadute umane. La Chiesa non ha quaggiù l’unità perfetta del regno celeste, ma deve tuttavia avere una certa unità reale, un nesso, organico e spirituale nello stesso tempo, che la renda un’istituzione solida, un corpo vivo e un’individualità morale. Pur non abbracciando materialmente ed attualmente tutto il genere umano, essa è tuttavia universale, in quanto non può essere legata esclusivamente ad una nazione o ad un qualsiasi raggruppamento di nazioni, ma deve avere anzi un centro internazionale che le consenta di diffondersi nell’intero universo. La Chiesa terrena, che pure si fonda sulla rivelazione divina ed è custode del deposito della fede, non ha di per ciò stesso la conoscenza assoluta ed immediata di tutte le verità”[6].

Indipendenza della Chiesa

Questa Chiesa, prosegue Solov’ëv, ha tre caratteristiche: è una e universale; è infallibile nelle verità di fede; ma è anche indipendente. Infatti, “se non fosse indipendente non potrebbe svolgere nessuna delle sue funzioni sociali e, divenendo uno strumento delle potenze di questo mondo, verrebbe completamente meno alla sua missione”. Gli slavofili, al contrario, dopo “aver confuso (…) l’aspetto divino e l’aspetto terreno della Chiesa”, finiscono con l’identificare questo ideale con l’attuale Chiesa Orientale, la Chiesa greco-russa che è sotto i nostri occhi”. Così, “pur accettando in linea di principio l’idea di Chiesa Universale, gli slavofili la negano di fatto e riducono l’universalità cristiana ad una Chiesa particolare che, d’altra parte, è ben lungi dal corrispondere all’ideale da loro professato”[7]. E in L’idea russa Solov’ëv aggiunge: “Una Chiesa che faccia parte di uno Stato, cioè di un ‘regno di questo mondo’, ha abdicato alla propria missione e dovrà condividere il destino di tutti i regni di questo mondo”[8].

La visione profetica di Solov’ëv a fine Ottocento sembra così prefigurare l’attuale visione pluralista della Fratelli tutti di papa Francesco. Meritano di essere confrontati due brani che delineano una piena comunione spirituale tra tutte le Chiese, nella memoria del primo millennio unitario e nell’attesa di un compimento finale di cui la storia degli uomini e delle nazioni è sempre solo imperfetta preparazione e attesa.La visione profetica di Solov’ëv a fine Ottocento sembra così prefigurare l’attuale visione pluralista della Fratelli tutti di papa Francesco. Meritano di essere confrontati due brani che delineano una piena comunione spirituale tra tutte le Chiese, nella memoria del primo millennio unitario e nell’attesa di un compimento finale di cui la storia degli uomini e delle nazioni è sempre solo imperfetta preparazione e attesa.

Vladimir Solov’ëv 

“L’idea russa” (1888)

“Se (…) nel Nuovo Testamento non ci si occupa più di alcuna nazionalità in particolare e addirittura si proclama espressamente che non dovrà più esistere alcun antagonismo nazionale, non si dovrà allora concludere che nel pensiero primordiale di Dio le nazioni non esistono al di fuori della loro unità organica e vivente, cioè fuori dell’umanità? E se le cose stanno così per Dio, devono stare così anche per le nazioni stesse, nella misura in cui vogliono realizzare la loro idea autentica, che altro non è se non il loro modo di essere nel pensiero di Dio”.

“Il popolo russo è un popolo cristiano e quindi, per conoscere la vera idea russa, non ci si deve chiedere che cosa farà la Russia da sé e per sé, ma che cosa deve fare in nome di quel principio cristiano che essa riconosce e per il bene di quella cristianità universale di cui essa è ritenuta far parte (…). Per adempiere la propria missione, essa deve (…) utilizzare tutte le proprie forze nazionali per realizzare, in pieno accordo con gli altri popoli, quell’unità perfetta ed universale del genere umano, il cui fondamento immutabile ci è dato nella Chiesa di Cristo”[9].

Papa Francesco

“Fratelli tutti” (2020)

“Per stimolare un rapporto sano tra l’amore alla patria e la partecipazione cordiale all’umanità intera, conviene ricordare che la società mondiale non è il risultato della somma dei vari Paesi, ma piuttosto è la comunione stessa che esiste tra essi, è la reciproca inclusione, precedente rispetto al sorgere di ogni gruppo particolare. In tale intreccio della comunione universale si integra ciascun gruppo umano e lì trova la propria bellezza. Dunque, ogni persona che nasce in un determinato contesto sa di appartenere a una famiglia più grande, senza la quale non è possibile avere una piena comprensione di sé (…).

“Questo approccio, in definitiva, richiede di accettare con gioia che nessun popolo, nessuna cultura o persona può ottenere tutto da sé”[10].


[1] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1992, pp. 565-568, in particolare n. 2309.

[2] La Guardia varangiana era il reggimento di guerrieri vichinghi scesi dalla Svezia (chiamati Vareghi o Variaghi) che proteggeva l’imperatore di Bisanzio. All’inizio alleati nelle guerre dell’imperatore Basilio II nel tardo X secolo, i Varangi diventarono le spietate e fedeli guardie del corpo imperiali.

[3] Cfr. Timothy Snyder, Ivan Il’in. Il filosofo del neozarismo di Putin, Ed. Italia storica, 2022.

[4] Vladimir Solov’ev, La Russia e la Chiesa universale (cap. 5°, “Gli slavofili russi e le loro idee sulla Chiesa. Osservazioni critiche” saggio del 1889); e L’idea russa (1888), entrambi in Opere, vol. 3°, La Russia e la Chiesa universale e altri scritti. La Casa di Matriona, Milano 1989.

[5] La Russia e la Chiesa universale, p. 83.

[6] Ivi.

[7] Ibid., p. 84.

[8] L’idea russa, ibid., p. 253.

[9] Ibid., pp. 248-249.

[10] Papa Francesco, “Fratelli tutti”, Ed. Ancora, Milano 2020, nn. 149-150.

Kharkiv 10 marzo 2022

Un breve racconto in cui l’autore, che ha conosciuto quei luoghi, si immedesima nel vissuto di un giovane soldato russo mandato inconsapevolmente a combattere in una guerra decisa da altri in nome di un’ideologia che sembra uscita da altri tempi.

La mano. Difficile dire da quanto tempo lui fosse lì, in quella posizione innaturale. Davanti a Ivan le prime case della città si innalzavano spettrali. Scheletri di case. Non si sarebbe detto che al di là di quelle facciate potesse ancora esistere qualche forma di vita. Eppure c’erano. E sparavano. E così Ivan dovette fermarsi. Da quanto tempo Ivan era disteso sul carro, davanti a quella città fantasma, senza potersi muovere? Per quanto tempo ancora avrebbe dovuto restare lì, in quella scomoda posizione? Sotto di lui la lamiera era rovente, ma non la sentiva. Il gelo dell’aria compensava quell’insolito calore e la neve intorno, nostalgia di altri tempi e altri luoghi, rendeva quella periferia così simile, così troppo simile alle tante periferie che Ivan aveva visto girando per la Russia. In fondo tutte le periferie si assomigliano: a Mosca come a Perm, e come a San Pietroburgo, dove i suoi genitori si erano trasferiti dalla Leningradskaja Oblast’ quando lui era ancora piccolo. Per rassicurarlo di quel primo strappo gli regalarono una bellissima, potente ruspa telecomandata. A Ivan piacevano le ruspe, e piacevano le periferie. Le periferie sono grigie, ma dentro pulsa una vita intensa, senza fondo. Per questo lui non avrebbe mai più voluto abitare altrove. Di San Pietroburgo Ivan amava tutto: i ponti mobili sui canali lungo i quali aveva fatto lunghe camminate accanto a Nastia, la fortezza di Pietro e Paolo, la prospettiva Nevskij con i suoi negozi luccicanti; e il Mariinskij – una sera d’estate diedero Tchaikovsky, il lago dei Cigni, e lui ci portò Nastia – e il Palazzo d’Inverno, con tutti suoi tesori. Lui di San Pietroburgo amava particolarmente la chiesa del Salvatore sul Sangue, che racchiudeva il selciato di una storia tragica, e la splendida Tzarskoye Selo, che degli zar custodiva le passioni segrete. Quante volte, di quella storia, il vecchio prof gli aveva raccontato aneddoti e leggende, dai primi Zar alla grande guerra patriottica! Ivan ricordava perfino le inflessioni della sua voce: in quei momenti Alexandr Semenëv assumeva un tono solenne, di chi sa di dare una consegna segreta, un testamento spirituale ai propri figli: quella storia gloriosa e tragica, diceva il vecchio Semenëv, declinò, per causa di un presidente troppo debole. Ne venne poi uno peggiore, un vecchio ubriacone. Ma quando Putin prese le redini della patria, allora tutto, proprio tutto, cambiò in meglio. La Russia conobbe una ricchezza mai vista, tornò orgogliosa del suo passato. Non ci si doveva più vergognare né degli zar, né di Stalin, che aveva liberato il mondo dal nazismo: Putin ora rendeva di nuovo grande la Russia! Ivan tutto questo lo sapeva. Ci era cresciuto, Ivan, nella gioventù putiniana. Fu in quelle riunioni che vide Nastia per la prima volta: all’inizio non l’aveva quasi notata. Ma una sera che ritornavano insieme lungo la Neva, parlarono a lungo: lui le raccontò la sua storia, lei ascoltava assorta, e lo guardava. Sembrò a Ivan che il cuore pulsasse più forte. Era una strana impressione, il respiro era in affanno, ma quella sera si era sentito leggero, quasi non sentì più di avere un corpo, avrebbe potuto volare. E lei gli prese la mano…

Quando con Nastia passeggiava lungo la Neva, Ivan non poteva fare a meno di ammirare il senso di potenza che emanava dall’Aurora, che li attendeva ormeggiata alla banchina. Il vecchio incrociatore che aveva sparato il primo colpo della Rivoluzione d’Ottobre dopo un secolo era ancora lì. Una certezza, di fronte a tutto ciò che muta, che muta troppo in fretta. Tutte le volte che Ivan ci era passato da ragazzo, si immaginava marinaio. E gli tornava alla mente il vecchio Semenëv… Sì, c’erano state altre ragazze, nella vita di Ivan, ma Nastia… Nastia lo sapeva ascoltare, lo guardava e lo ascoltava. Ivan sapeva che con Nastia sarebbe potuto andare in capo al mondo.

Arrivò anche il tempo del militare. Lui che aveva sempre sognato la marina entrò nel corso per carristi. Ma non se ne pentì: il T-72 BM è davvero una gran bella bestia, e poi li porta bene, i suoi anni! Quando ci sali dentro ti senti onnipotente, senti la potenza sotto di te: ti avvolge, ti senti un dio greco! Ivan si sentiva addosso la stessa potenza che gli dava da bambino la sua ruspa.

Ivan poteva dirsi un carrista esperto, ma queste erano le esercitazioni più lunghe che avesse mai fatto. Putin disse che si doveva andare in Ucraina. A snidare i nazisti, disse. Che strana cosa! Ivan aveva imparato dal suo vecchio professore che l’Armata Rossa li aveva distrutti tutti, i nazisti. Alexandr Alxevič Semenëv queste cose le sapeva bene! Però Putin, da parte sua, non poteva sbagliarsi. Non si era mai sbagliato! Evidentemente qualcuno era rimasto, nascosto in giro per la Germania, ed ora eccoli lì, a Kiev! Bisognava fare questa cosa, bisognava snidare i nazisti e restituire l’Ucraina ai russi. Poi a casa.

Erano passati molti giorni, ma i nazisti se ne stavano ancora annidati. Dovevano essere di più del previsto, aveva pensato Ivan. Sparavano da tutte le parti. Non è che lui avesse avuto paura, no. Il suo tank lo proteggeva. Peccato però per quella posizione… E la mano… Fosse riuscito almeno a spostarla, quella mano…

Tutto aveva funzionato bene. La colonna dei carri avanzava nella neve e la strada era sgombra. Poi… fu un niente. Un sibilo, una fiammata. Il suo carro sterzò d’improvviso, e con gran rumore si fermò. Non era prudente uscire fuori, aveva pensato Ivan, ma lì dentro faceva caldo, troppo caldo. E uscì.

La vita del carrista è la vita di un topo, Ivan lo sapeva bene. Quante volte da bambino aveva ascoltato le storie di sua nonna, Irina Nikolaevič, eroina della seconda guerra mondiale. Dodici medaglie! Infermiera di guerra. Aveva il compito di andare a tirarli fuori, i carristi, quando i carri venivano colpiti. E si scorticavano le mani, le infermiere. Salivano sulla lamiera incandescente, e li tiravano fuori. Alle volte se li trascinavano sulle spalle, altre volte trovavano solo brandelli di carne… Così Ivan una cosa la sapeva, prima che gliela dicessero al corso: se il tuo carro è colpito, tu salta fuori, salta fuori! … Per la verità, a pensarci bene, quella cosa, al corso carristi, a Ivan non l’avevano detta… Gli avevano detto invece che quei carri erano fortezze inespugnabili, e lui lo sapeva: era un cavaliere antico chiuso nella sua corazza, era come una divinità, possente e indifferente davanti ai piccoli uomini che stavano là fuori.

Poi lo mandarono a questo cazzo di esercitazione. Prima si dovette caricare i carri sui vagoni ferroviari. Non finiva più quel viaggio… pianura, sempre solo pianura. Com’è grande la Russia, aveva pensato Ivan mentre immensi campi di grano gli scorrevano davanti, scorrevano, scorrevano senza fine. I carri furono scaricati e si disposero in colonna. A tutti fu dato l’ordine di scrivere sul carro una grande “Z”. I soldati ci scherzarono molto su quella “Z”. Una lettera occidentale: perché mai non in cirillico? Zeta come za: un brindisi za… già, e per chi? Per la patria! E giù vodka. Per la madre Russia! Per i carristi! E giù ancora vodka. Per le donne dei carristi! Per le amanti dei carristi!… e za pobedu: per la vittoria. E intanto scorreva la vodka … La colonna partì e fece un lungo percorso, attraversò ponti semidistrutti, strade intrise di neve e di fango, di fango e di neve. Dopo alcuni giorni il capitano disse che l’esercitazione era un’“operazione speciale”. Che differenza fa? – Si chiese Ivan. E ripresero il viaggio. Finalmente giunsero davanti ad una città. Da lontano, sembrava proprio San Pietroburgo. Non aveva nulla di diverso, salvo che mancava la Neva, e mancava il mare. I comandanti dissero che nella città si nascondevano i nazisti e si doveva andare a snidarli.  Che cosa ci facevano ancora lì, i nazisti? Alexandr Semenëv gli aveva insegnato che i nazisti furono sconfitti nella gloriosa guerra patriottica del 1941-1945. Povera nonna, se fosse viva, lei che aveva rischiato la pelle per toglierli di mezzo!

Così spararono, sulla città che rinnega il suo nome. Ma quanti erano, quei nazisti? Più si sparava, e più ne rispuntavano. E venivano avanti, e miravano ai carri, con quei loro micidiali mortai che portavano a spalla. Qualcuno, da lontano, gridò verso Ivan. Gridava in una lingua che, così da lontano, gli sembrò quasi russo. “Fermatevi! – gli sembrò che dicesse – tornate a casa!”. Ma certamente era solo un’impressione: non poteva gridare in russo! Ivan lo sapeva, i nazisti non parlano russo, né ucraino. I nazisti parlano tedesco. Così sparò e sparò ancora, su quei nazisti travestiti da russi. La città fu ridotta al suo scheletro, ma quelli non mollavano. E sparavano, sparavano. Anche il nonno di Ivan aveva sparato contro i nazisti. Il nonno paterno, Ivan non fece a tempo a conoscerlo, era morto alla fine del 1986, gli dissero. A Cernobyl, dopo che aveva partecipato ai soccorsi alla centrale nucleare. Anche lui ebbe delle medaglie. Ivan sapeva che i suoi nonni avevano combattuto fino all’ultimo, nella lotta senza quartiere contro i nazisti. Adesso toccava a lui. Ma se almeno si fossero fatti vedere bene, quei nazisti… Stavano ben nascosti, nelle case degli ucraini, e non c’era modo di poter vederne uno, di tedesco.

Adesso Ivan se ne stava lì, fermo, in quella scomoda posizione, non poteva proprio muoversi. Da quanto tempo? Difficile dirlo… Ne passò dell’altro, di tempo, forse un’eternità. Finché, dietro di lui, alcune voci gli si fecero vicine: “Eccone un altro”, disse uno. La ragazza in divisa gli si avvicinò: si allungò in alto e strappò dal suo collo la piastrina di riconoscimento: “Ivan Nikolaevič Mikhaylov, nato a Kostuya il 10 marzo 1999, Leningradskaja Oblast’”. Due uomini robusti presero Ivan per le braccia e per le gambe. Lo fecero rotolare dentro ad un telo. Stavano già per sollevarlo, quando la ragazza portò loro qualcosa, avvolta dentro ad uno straccio e la depose con pietà, accanto al corpo esanime di Ivan. Con voce rotta, quasi in un soffio, disse ai suoi compagni in divisa: “Vot ruka!”. Ecco la mano. – “Spasibo, Nastia!” – rispose Vasilij, mentre con Igor portava via il pesante fagotto.

Giorgio Cavalli, Kharkiv 10 marzo 2022

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