Mese: Marzo 2022

LineaTempo #29

Un gigante della letteratura francese del Novecento, eppure poco conosciuto in Italia, salvo che per il dramma teatrale L’annuncio a Maria
Grazie a una pattuglia di specialisti, guidati dalla passione e dalla competenza di Simonetta  Valenti, abbiamo cercato di delineare il senso della ricerca umana ed artistica di questo poliedrico grande autore.
Claudel infatti ha attraversato le drammatiche lacerazioni dell’uomo contemporaneo e sue personali senza rinnegare nulla dell’umano, anzi traendone ispirazione per un lavoro costante di scavo del proprio io in stretto e continuo dialogo con la proposta cristiana incontrata nel pieno dell’età adulta.

Simonetta Valenti: Di Terra e di Cielo
Claudel nella sua ricerca e nella sua opera.

Agnese Bezzera: «La scena di questo dramma è il mondo». La vita di Claudel
Breve profilo biografico di Paul Claudel.

Alberto Fraccacreta: Nascere insieme all’Altro. Note sulla nuova traduzione italiana di Conoscenza dell’Est
Nell’incontro con l’Oriente la scoperta dell’alterità.

Annamaria Cascetta: L’Annonce faite à Marie
Leggere la realtà in chiave di immaginazione simbolica.

Alessandra Marangoni: Tre voci nel giorno più lungo tra la primavera e l’estate. La Cantate a trois voix
Tre donne in attesa di compimento.

Domique Millet-Gérard: Téte d’Or
Una grande macchina epica che ci mette dinanzi agli occhi e al cuore la straordinaria epopea interiore di un giovane per uscire dal materialismo del suo ambiente.

Flaminia Morandi: “Evergreen Claudel”
Un maestro del discernimento che non passa mai di moda.

Per i Percorsi culturali e didattici diversi contributi (Bellino, Giostra e Botturi) focalizzano il ruolo ed il valore della Resistenza morale delle Chiese cristiane al nazismo.

Nei Segmenti appaiono articoli sulla storia di Quintino Di Vona, un grande insegnante, latinista e partigiano, e su Juan Rulfo, grande scrittore messicano che ha esplorato il contesto sociale della Cristiada.

In Recensioni ed eventi un’ampia intervista ad uno dei massimi specialisti di storia militare, Virgilio Ilari, una recensione dell’ultimo libro di Borghesi su papa Francesco e una presentazione critica del libro Verga cristiano.

Infine la presentazione e il primo contributo della nuova sezione Lettori alla prova.

Corrispondenze esistenziali con Sempre tornare di D. Mencarelli

Mi sono impegnato nella lettura del libro Sempre tornare di Daniele Mencarelli (Mondadori, 2021) l’ultimo della sua trilogia, dopo aver constatato la singolare corrispondenza di sentire tra me e l’Autore. Il libro narra del viaggio di un diciassettenne che lascia bruscamente la compagnia con la quale progettava di passare le vacanze estive e ritorna a casa facendo un lungo viaggio, da solo e attraversando con mezzi di fortuna mezza Italia all’inizio degli anni ’90, incontrando tante persone, ognuna delle quali gli rivela qualcosa su di sé. Il cammino che Daniele descrive per comunicarci che la vita è una continua scoperta di sé stessi ha il potere di provocare l’approfondirsi del giudizio sul mio cammino, iniziato un po’ prima – nel ‘91 avevo già quattro figli –, ma non dissimile dal suo nei dettagli di tempo e di spazio in cui si è svolto.

Nell’accostarmi all’opera di un altro, a un quadro per esempio ma soprattutto ad un libro, mi capita spesso di ritrovare qualcosa che avrei potuto scrivere quasi allo stesso modo, come se attraverso l’autore essa fosse stata pensata appositamente da me e per me. Questo mi rende sempre totalmente incapace di una critica del testo nel senso comune del termine, ma sempre si dimostra in grado di evocare in me un senso più grande del vivere che diventa appunto una esperienza comune.

Non voglio dunque analizzare quest’opera o prenderne spunto per parlare d’altro ma mi concentro su quel che mi accomuna all’autore soffermandomi in maniera non sistematica su alcuni temi tra i numerosi che gremiscono queste pagine, ben sapendo che gli eventi ci possono rendere più consapevoli, ma quello che siamo nel profondo resta un marchio immodificabile. Come la nostra altezza, o il colore degli occhi.(Cap 13)

Vivere insieme

Una vita fatta comunità. Semplicemente perché è più logico (Cap 7). Anche per me questo è insieme l’inizio e la sintesi di ogni posizione, o almeno dovrebbe esserlo come risultato di una riflessione leale su quel che capita. Soltanto che la riflessione non mi ha mai soddisfatto, anzi spesso mi ha esaltato fino a condurmi all’errore. Ho iniziato dalla considerazione semplice e solitaria delle cose naturali, come accadeva per esempio davanti alle vetrine del museo di storia naturale di Milano. Come tutti i bambini ero colpito dai mammiferi selvatici e domestici ma davanti a quelle vetrine mi accorgevo che qualcosa non tornava: mi pareva che quegli animali fossero estremamente lontani da noi uomini, e non semplicemente perché erano lì morti e impagliati. Negli anni ho capito che dipendeva dal fatto che lo sguardo inespressivo degli occhi di vetro delle tassidermie non era poi molto diverso da quello che vedevo dal vero o nei documentari. Uno sguardo colmo di una grande assenza; sto pensando agli occhi dei predatori che fissano le prede prima dell’attacco o agli occhi delle prede mentre vengono azzannate alla gola; ma è lo stesso anche per lo sguardo più comune dei conigli, dei ratti, dei piccioni, dei maiali, dei gatti e via elencando. Certo alcune specie domestiche come i bovini e i cavalli, e specialmente alcune razze di cani, sembrano comunicare qualcosa con lo sguardo, qualcosa che tuttavia resta sempre labile e insondabile. Proprio come ritrovo in questo passaggio del libro. Ho sempre avuto la sensazione che negli occhi degli animali, dentro certi sguardi come quello che mi sta offrendo questo gatto di strada, passi un desiderio enorme di comunicare nell’impossibilità di farlo. (Cap 5)

Sarebbe ben più logico dunque vivere insieme, uomini e animali, come ricorda Daniele. Non bastasse il sangue, il corpo, un cuore, anche le povere cose che ci servono per vivere ci ricordano che siamo tutti uguali, abbiamo stessi bisogni, abitudini, e identico destino. Identico è anche il tempo che ci scorre addosso, che fa diventare grandi i bambini e vecchi gli adulti. L’umanità è una, e quello che ci divide sarà sempre infinitesimamente più piccolo rispetto a tutto quello che ci unisce. (Cap 7)

Un’esperienza comune eppure in qualche modo anche originale. In natura niente è mai completamente uguale ad un’altra entità analoga. Non è mai esistita né mai esisterà una nuvoletta completamente uguale ad un’altra, o un seme o un maiale d’allevamento o un fungo o un pezzo di roccia o una persona. Nella loro sterminata moltitudine gli esseri animati o inanimati dello stesso tipo sono sempre lievemente diversi tra loro e, anche se posso riconoscerli agevolmente quando li vedo, non posso spiegarli del tutto perché mantengono una singolarità propria che mi appare l’indizio di quel quid che tiene insieme fissità e variazione e che sfugge alla comprensione.

Violenza, desolazione e solitudine

Il desiderio di vivere insieme, di comunione, quando è spesso coartato, può diventare drammaticamente violento. Il mostro che abita nella mia testa gioca a sovrapporre quello che io vivo, e amo, con ciò che accade nelle vite degli altri (Cap 12). Eppure esistono assonanze – o dissonanze – misteriose se una frase praticamente identica è usata dalla Beata Benedetta Bianchi Porro per definire la carità: la carità è abitare negli altri, ed ognuno ogni giorno è posto davanti a questa alternativa.

Altrimenti questo desiderio può trasformarsi in una terra desolata. Cosa ho più degli altri venuti prima di me? E di tutti quelli che mi seguiranno? Niente. Assolutamente niente. Come loro sono venuto al mondo senza averlo chiesto, e me ne andrò allo stesso modo. Dopo aver vissuto e amato in una terra straniera (Cap 49). Perché l’abisso che siamo non si riempie mai: occhi avidi sempre di vedere, orecchi mai riempiti di sentire (Qohelet 1,8). E non resta niente.

Eppure, come dice l’Autore in una delle affermazioni capitali del libro, non si resta mai soli: Stare da soli vuol dire stare con tutti (Cap 43). Questa è la fine e l’inizio di ogni viaggio. Per scoprire quello che siamo veramente, abbiamo solo una maniera. Farcelo dire dagli altri (Cap 49) proprio come recita la famosa frase dell’epistolario di Pavese: Mistero, perché non ci basti scrutare e bere in noi ma ci occorra riavere noi dagli altri.

Capire il senso di tutto

La possibilità di capire. Non desidero dalla vita che questo. (Cap 2)

Al Camposanto Monumentale di Pisa, quando avevo pochi, anni mi trovai difronte all’affresco Trionfo della morte di Buonamico Buffalmacco. Nella prima scena in basso a sinistra all’altezza di testa di bambino potevo distinguere tre bare aperte con in vista i resti di un nobile, un ecclesiastico e uno scheletro contornato da serpenti e vermi. Prima di allora nessuno si era preoccupato di indorarmi la pillola e così sono stato esposto senza spiegazioni al duro destino di noi viventi riprodotto su un muro di un cimitero medievale. Da quel momento mi ha interessato il tema della morte e del Giudizio Universale di cui occorre avere timore, ma che anche occorre desiderare perché finalmente ogni cosa torni al suo posto, secondo una misura che non è la nostra; quando ogni persona andrà giudicata nel complesso delle vicende universali; un giudizio del quale verremo messi a parte non per soddisfare il nostro desiderio di ficcanasare nella vita degli altri ma perché risplenda la gloria di colui che tutto move.

Quante volte mi sono chiesto che senso possono avere certi episodi e che giudizio ultimo se ne potrà dare. Che dire del gigante patagone imbarcato da Magellano durante il periplo del mondo come trofeo da mostrare agli amici e morto di stenti con in mano il crocefisso durante l’attraversata del Pacifico? Il far schiavi del resto era cosa comune fra i portoghesi autorizzati a questo dalla bolla papale Dum Diversas del 1452. O come giudicare l’oscuro addetto ai trabucchi dell’orda d’oro di Ganī Bek, intento a dare inizio alla grande peste del ‘300 catapultando cadaveri infetti dentro le mura di Caffa, colonia genovese di Crimea? Oppure cosa pensare dei coloni olandesi del capo di Buona Speranza che lasciarono la patria nel ‘600 e vissero tanto isolati da essere l’unico gruppo europeo a non aver conosciuto la Rivoluzione Francese? Forse per questa ragione l’apartheid era un problema che i boeri che ho incontrato non riuscivano bene a capire. Ma soprattutto cosa sarà di Rudolf Höss il comandante del campo di Auschwitz responsabile diretto della eliminazione di milioni di persone, condannato a morte e confessato in extremis da padre Wladyslaw Lohn un gesuita polacco che aveva cercato di farsi internare nel campo dove erano reclusi i suoi confratelli, ma inspiegabilmente ne era stato respinto?

«La confessione durò e durò e durò, finché non gli diede l’assoluzione: “Ti sono perdonati i tuoi peccati. Rudolf Höss, tu l’animale, i tuoi peccati ti sono perdonati. Vai in pace”». Il giorno successivo, prima dell’esecuzione, il gesuita tornò per dare la Comunione al condannato. La guardia che era presente confessò poi che quello fu uno dei momenti più belli della sua vita: «Vedere quell’animale in ginocchio, con le lacrime agli occhi, come un bambino che sta per ricevere la Prima Comunione, Gesù, con il cuore».

Un abbraccio di fronte al dolore

Quel che fa specie nell’esperienza è il dolore che sembra assolutamente inconciliabile con la vita, così come dice Daniele: Io c’ho guardato dentro il dolore. Ma non c’è niente. È solo dolore (Cap 39). In fondo questa è la misura del viaggio: o morirò io o morirà il dolore che mi ha divorato gli occhi (Cap 28).

Nel libro è chiaramente indicata la strada: Ci vorrebbe qualcuno, un adulto, un maestro, che vada da quei due e con buone parole, la giusta persuasione, spezzi la tradizione, in virtù di una novità incredibile. Il bene (Cap 30). E questo è quello che mi è capitato: l’abbraccio di Uno che mi vuole bene. Un abbraccio che è proposto a tutti. Se davvero il gesto dell’abbraccio fosse un indizio di tutto quello che cerco di capire? (Cap 21)

E in quell’abbraccio O prima o poi verrò io da te, per vedere con gli occhi, per sapere di cosa è fatto questo amore, se di eterno oppure polvere (Cap 15).

Nella vita si sceglie veramente poco (Cap 15), forse soltanto di cedere a quell’abbraccio

Dalla Russia, una testimonianza di libertà

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Elena Rusakova racconta sulla Rivista “La Nuova Europa” una commovente manifestazione di dissenso esploso tra la gente della metropolitana della sua città. Se dei testimoni si pongono con libertà, può accadere che il cuore delle persone risponda.

(Elena Rusakova, Lettere dalla Russia / 2, “La Nuova Europa”).

Lettere dalla Russia / 2 / Non possiamo fare più niente… Vieni Signore – La Nuova Europa

L’amicizia, oltre l’abisso della guerra

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Dmitry Strotsev, poeta bielorusso, dopo lo scoppio della guerra che contrappone i governi bielorusso e ucraino posta nella pagina di Facebook questa poesia che aveva scritto precedentemente, che esprime il suo amore per gli amici ucraini

Украине

пускай не встретимся уже
мы встретились уже

уже не выйти в небеса
мы вышли в небеса

и больше нам не опьянеть 
настолько мы пьяны

и мы не перестанем петь
над пропастью войны



All’Ucraina

Non dobbiamo incontrarci di nuovo
Ci siamo già incontrati

Non andare più in cielo
Noi siamo arrivati in cielo

E non ubriachiamoci oltre
Siamo così ubriachi 

E non smettiamo di cantare
Sopra l’abisso della guerra

(Dmitry Strotsev, All’Ucraina, 23.01.2022 )

Dall’odio al perdono

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Una giovane insegnante ucraina testimonia il suo mutamento di sguardo: dall’odio generato dai bombardamenti fino a scoprire i russi come fratelli di un comune destino di sofferenza: “Quand’ero a Cracovia sono andata ad Auschwitz, perché mi sembra che il periodo del GuLag e dei lager nazisti sia stato il momento più disumano, e al tempo stesso più umano della storia. E quando mi sono trovata lì ad Auschwitz, ho provato un grande dolore, ho pensato che anche in Russia muoiono bambini, persone, e ho scorto il legame storico tra tutte queste cose”.

(Kristina Ursuljak, Voci dall’Ucraina. Se odio, perdo la guerra, La nuova Europa, 20 Marzo 2022)

L’imprevisto irrompe nella storia

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«La storia ha accelerato; l’impossibile è diventato possibile. Gli sviluppi che due settimane fa nessuno immaginava stanno avvenendo con una velocità incredibile», ha scritto Anne Applebaum a proposito dell’attuale guerra in Ucraina (Anne Applebaum, The Impossible Suddenly Became Possible). L’aggressione russa all’Ucraina ha posto infatti all’attenzione di un’attonita opinione pubblica le vicende e il destino di questa nazione a nord del mar Nero, che dal 1991 è stata riconosciuta da tutti come Stato indipendente.

Kharkiv 10 marzo 2022

Un breve racconto in cui l’autore, che ha conosciuto quei luoghi, si immedesima nel vissuto di un giovane soldato russo mandato inconsapevolmente a combattere in una guerra decisa da altri in nome di un’ideologia che sembra uscita da altri tempi.

La mano. Difficile dire da quanto tempo lui fosse lì, in quella posizione innaturale. Davanti a Ivan le prime case della città si innalzavano spettrali. Scheletri di case. Non si sarebbe detto che al di là di quelle facciate potesse ancora esistere qualche forma di vita. Eppure c’erano. E sparavano. E così Ivan dovette fermarsi. Da quanto tempo Ivan era disteso sul carro, davanti a quella città fantasma, senza potersi muovere? Per quanto tempo ancora avrebbe dovuto restare lì, in quella scomoda posizione? Sotto di lui la lamiera era rovente, ma non la sentiva. Il gelo dell’aria compensava quell’insolito calore e la neve intorno, nostalgia di altri tempi e altri luoghi, rendeva quella periferia così simile, così troppo simile alle tante periferie che Ivan aveva visto girando per la Russia. In fondo tutte le periferie si assomigliano: a Mosca come a Perm, e come a San Pietroburgo, dove i suoi genitori si erano trasferiti dalla Leningradskaja Oblast’ quando lui era ancora piccolo. Per rassicurarlo di quel primo strappo gli regalarono una bellissima, potente ruspa telecomandata. A Ivan piacevano le ruspe, e piacevano le periferie. Le periferie sono grigie, ma dentro pulsa una vita intensa, senza fondo. Per questo lui non avrebbe mai più voluto abitare altrove. Di San Pietroburgo Ivan amava tutto: i ponti mobili sui canali lungo i quali aveva fatto lunghe camminate accanto a Nastia, la fortezza di Pietro e Paolo, la prospettiva Nevskij con i suoi negozi luccicanti; e il Mariinskij – una sera d’estate diedero Tchaikovsky, il lago dei Cigni, e lui ci portò Nastia – e il Palazzo d’Inverno, con tutti suoi tesori. Lui di San Pietroburgo amava particolarmente la chiesa del Salvatore sul Sangue, che racchiudeva il selciato di una storia tragica, e la splendida Tzarskoye Selo, che degli zar custodiva le passioni segrete. Quante volte, di quella storia, il vecchio prof gli aveva raccontato aneddoti e leggende, dai primi Zar alla grande guerra patriottica! Ivan ricordava perfino le inflessioni della sua voce: in quei momenti Alexandr Semenëv assumeva un tono solenne, di chi sa di dare una consegna segreta, un testamento spirituale ai propri figli: quella storia gloriosa e tragica, diceva il vecchio Semenëv, declinò, per causa di un presidente troppo debole. Ne venne poi uno peggiore, un vecchio ubriacone. Ma quando Putin prese le redini della patria, allora tutto, proprio tutto, cambiò in meglio. La Russia conobbe una ricchezza mai vista, tornò orgogliosa del suo passato. Non ci si doveva più vergognare né degli zar, né di Stalin, che aveva liberato il mondo dal nazismo: Putin ora rendeva di nuovo grande la Russia! Ivan tutto questo lo sapeva. Ci era cresciuto, Ivan, nella gioventù putiniana. Fu in quelle riunioni che vide Nastia per la prima volta: all’inizio non l’aveva quasi notata. Ma una sera che ritornavano insieme lungo la Neva, parlarono a lungo: lui le raccontò la sua storia, lei ascoltava assorta, e lo guardava. Sembrò a Ivan che il cuore pulsasse più forte. Era una strana impressione, il respiro era in affanno, ma quella sera si era sentito leggero, quasi non sentì più di avere un corpo, avrebbe potuto volare. E lei gli prese la mano…

Quando con Nastia passeggiava lungo la Neva, Ivan non poteva fare a meno di ammirare il senso di potenza che emanava dall’Aurora, che li attendeva ormeggiata alla banchina. Il vecchio incrociatore che aveva sparato il primo colpo della Rivoluzione d’Ottobre dopo un secolo era ancora lì. Una certezza, di fronte a tutto ciò che muta, che muta troppo in fretta. Tutte le volte che Ivan ci era passato da ragazzo, si immaginava marinaio. E gli tornava alla mente il vecchio Semenëv… Sì, c’erano state altre ragazze, nella vita di Ivan, ma Nastia… Nastia lo sapeva ascoltare, lo guardava e lo ascoltava. Ivan sapeva che con Nastia sarebbe potuto andare in capo al mondo.

Arrivò anche il tempo del militare. Lui che aveva sempre sognato la marina entrò nel corso per carristi. Ma non se ne pentì: il T-72 BM è davvero una gran bella bestia, e poi li porta bene, i suoi anni! Quando ci sali dentro ti senti onnipotente, senti la potenza sotto di te: ti avvolge, ti senti un dio greco! Ivan si sentiva addosso la stessa potenza che gli dava da bambino la sua ruspa.

Ivan poteva dirsi un carrista esperto, ma queste erano le esercitazioni più lunghe che avesse mai fatto. Putin disse che si doveva andare in Ucraina. A snidare i nazisti, disse. Che strana cosa! Ivan aveva imparato dal suo vecchio professore che l’Armata Rossa li aveva distrutti tutti, i nazisti. Alexandr Alxevič Semenëv queste cose le sapeva bene! Però Putin, da parte sua, non poteva sbagliarsi. Non si era mai sbagliato! Evidentemente qualcuno era rimasto, nascosto in giro per la Germania, ed ora eccoli lì, a Kiev! Bisognava fare questa cosa, bisognava snidare i nazisti e restituire l’Ucraina ai russi. Poi a casa.

Erano passati molti giorni, ma i nazisti se ne stavano ancora annidati. Dovevano essere di più del previsto, aveva pensato Ivan. Sparavano da tutte le parti. Non è che lui avesse avuto paura, no. Il suo tank lo proteggeva. Peccato però per quella posizione… E la mano… Fosse riuscito almeno a spostarla, quella mano…

Tutto aveva funzionato bene. La colonna dei carri avanzava nella neve e la strada era sgombra. Poi… fu un niente. Un sibilo, una fiammata. Il suo carro sterzò d’improvviso, e con gran rumore si fermò. Non era prudente uscire fuori, aveva pensato Ivan, ma lì dentro faceva caldo, troppo caldo. E uscì.

La vita del carrista è la vita di un topo, Ivan lo sapeva bene. Quante volte da bambino aveva ascoltato le storie di sua nonna, Irina Nikolaevič, eroina della seconda guerra mondiale. Dodici medaglie! Infermiera di guerra. Aveva il compito di andare a tirarli fuori, i carristi, quando i carri venivano colpiti. E si scorticavano le mani, le infermiere. Salivano sulla lamiera incandescente, e li tiravano fuori. Alle volte se li trascinavano sulle spalle, altre volte trovavano solo brandelli di carne… Così Ivan una cosa la sapeva, prima che gliela dicessero al corso: se il tuo carro è colpito, tu salta fuori, salta fuori! … Per la verità, a pensarci bene, quella cosa, al corso carristi, a Ivan non l’avevano detta… Gli avevano detto invece che quei carri erano fortezze inespugnabili, e lui lo sapeva: era un cavaliere antico chiuso nella sua corazza, era come una divinità, possente e indifferente davanti ai piccoli uomini che stavano là fuori.

Poi lo mandarono a questo cazzo di esercitazione. Prima si dovette caricare i carri sui vagoni ferroviari. Non finiva più quel viaggio… pianura, sempre solo pianura. Com’è grande la Russia, aveva pensato Ivan mentre immensi campi di grano gli scorrevano davanti, scorrevano, scorrevano senza fine. I carri furono scaricati e si disposero in colonna. A tutti fu dato l’ordine di scrivere sul carro una grande “Z”. I soldati ci scherzarono molto su quella “Z”. Una lettera occidentale: perché mai non in cirillico? Zeta come za: un brindisi za… già, e per chi? Per la patria! E giù vodka. Per la madre Russia! Per i carristi! E giù ancora vodka. Per le donne dei carristi! Per le amanti dei carristi!… e za pobedu: per la vittoria. E intanto scorreva la vodka … La colonna partì e fece un lungo percorso, attraversò ponti semidistrutti, strade intrise di neve e di fango, di fango e di neve. Dopo alcuni giorni il capitano disse che l’esercitazione era un’“operazione speciale”. Che differenza fa? – Si chiese Ivan. E ripresero il viaggio. Finalmente giunsero davanti ad una città. Da lontano, sembrava proprio San Pietroburgo. Non aveva nulla di diverso, salvo che mancava la Neva, e mancava il mare. I comandanti dissero che nella città si nascondevano i nazisti e si doveva andare a snidarli.  Che cosa ci facevano ancora lì, i nazisti? Alexandr Semenëv gli aveva insegnato che i nazisti furono sconfitti nella gloriosa guerra patriottica del 1941-1945. Povera nonna, se fosse viva, lei che aveva rischiato la pelle per toglierli di mezzo!

Così spararono, sulla città che rinnega il suo nome. Ma quanti erano, quei nazisti? Più si sparava, e più ne rispuntavano. E venivano avanti, e miravano ai carri, con quei loro micidiali mortai che portavano a spalla. Qualcuno, da lontano, gridò verso Ivan. Gridava in una lingua che, così da lontano, gli sembrò quasi russo. “Fermatevi! – gli sembrò che dicesse – tornate a casa!”. Ma certamente era solo un’impressione: non poteva gridare in russo! Ivan lo sapeva, i nazisti non parlano russo, né ucraino. I nazisti parlano tedesco. Così sparò e sparò ancora, su quei nazisti travestiti da russi. La città fu ridotta al suo scheletro, ma quelli non mollavano. E sparavano, sparavano. Anche il nonno di Ivan aveva sparato contro i nazisti. Il nonno paterno, Ivan non fece a tempo a conoscerlo, era morto alla fine del 1986, gli dissero. A Cernobyl, dopo che aveva partecipato ai soccorsi alla centrale nucleare. Anche lui ebbe delle medaglie. Ivan sapeva che i suoi nonni avevano combattuto fino all’ultimo, nella lotta senza quartiere contro i nazisti. Adesso toccava a lui. Ma se almeno si fossero fatti vedere bene, quei nazisti… Stavano ben nascosti, nelle case degli ucraini, e non c’era modo di poter vederne uno, di tedesco.

Adesso Ivan se ne stava lì, fermo, in quella scomoda posizione, non poteva proprio muoversi. Da quanto tempo? Difficile dirlo… Ne passò dell’altro, di tempo, forse un’eternità. Finché, dietro di lui, alcune voci gli si fecero vicine: “Eccone un altro”, disse uno. La ragazza in divisa gli si avvicinò: si allungò in alto e strappò dal suo collo la piastrina di riconoscimento: “Ivan Nikolaevič Mikhaylov, nato a Kostuya il 10 marzo 1999, Leningradskaja Oblast’”. Due uomini robusti presero Ivan per le braccia e per le gambe. Lo fecero rotolare dentro ad un telo. Stavano già per sollevarlo, quando la ragazza portò loro qualcosa, avvolta dentro ad uno straccio e la depose con pietà, accanto al corpo esanime di Ivan. Con voce rotta, quasi in un soffio, disse ai suoi compagni in divisa: “Vot ruka!”. Ecco la mano. – “Spasibo, Nastia!” – rispose Vasilij, mentre con Igor portava via il pesante fagotto.

Giorgio Cavalli, Kharkiv 10 marzo 2022

L’appello del papa per la pace in Ucraina

“Non si arresta la violenta aggressione contro l’Ucraina, un massacro insensato dove ogni giorno si ripetono scempi e atrocità. Non c’è giustificazione per questo. Supplico tutti gli attori della comunità internazionale perché si impegnino davvero nel far cessare questa guerra ripugnante”. Così papa Francesco, invocando la fine delle ostilità tra Russia e Ucraina dopo ben 25 giorni di guerra”.

(Papa Francesco all’Angelus del 20 marzo 2022)

Papa Francesco/ “Abuso perverso del potere minaccia l’umanità. Ucraina, resa al male” (ilsussidiario.net)

Da Euromaidan alla crisi attuale

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Sul sito di GARIWO, che conduce un’opera preziosa di testimonianza della difesa dei diritti delle persone, troviamo un’equilibrata esposizione degli sviluppi politici della crisi in Ucraina che da semplice crisi politica interna nel 2013 è via via diventata crisi separatista nel 2014, poi guerra endemica e infine invasione. L’autore non manca di evidenziare alcuni errori dei governi ucraini e certe spinte radicali di estrema destra che hanno oggettivamente fatto il gioco delle mire neoimperialiste di Putin, ma il ruolo di ingerenza da parte russa negli affari interni di un paese sovrano e il progetto espansionista panrusso, sostenuto da una propaganda menzognera, risulta evidente fin dall’inizio.

(Joshua Evangelista, Da Euromaidan all’invasione russa: l’Ucraina dal 2014 a oggi).

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