Autore: Mario Lo Pinto

Fame di aria

La recensione di Mario Lo Pinto all’ultima fatica di Daniele Mencarelli ci invita ad addentrarci nella scrittura tanto densa quanto limpida di uno degli scrittori più originali di questo nostro tempo di sofferenza e solitudine, nel quale, per parafrasare un altro suo libro, tutto chiede salvezza. Ma nel caso di questo romanzo, perfino la parola salvezza sembra non poter uscire dalla gola del protagonista, almeno fino a che … Ma è possibile riavere noi dagli altri?

Nel suo ultimo romanzo Fame di aria (Mondadori, 2023) Daniele Mencarelli continua ad approfondire il tema del dolore e del suo significato.

Lo fa con un testo simile a quello di un’opera teatrale, quasi una sceneggiatura, e non è difficile immaginare che prima o poi ne venga tratto un film. Il romanzo descrive le vicende di un uomo bloccato da un guasto alla macchina in un piccolo centro insieme al figlio disabile che lui chiama beffardamente lo Scrondo; narra degli incontri di un uomo rabbioso e infelice, in fuga dagli affetti e pronto a mentire per nascondere la propria condizione e le proprie ristrettezze economiche, fino ad un epilogo inaspettato ed intenso.

Le condizioni a contorno sono quelle di un paese della provincia italiana più profonda, destinato a sparire quanto prima; l’ambiente e le cose sono le antiche suppellettili, i vecchi bar, le pensioni chiuse da tempo e riaperte per caso; simili ricordi sono vividi per chi ha già qualche anno ma son forse destinati a non essere pienamente compresi dai più giovani. Perché questo è il motivo che rende quasi familiari i racconti di Daniele, qualunque cosa racconti, il fatto di poterlo seguire riuscendo a vedere noi stessi negli spazi di un’altra Italia che perdura nella memoria.

Si può viaggiare nel tempo (atto I, scena III) è la sensazione entrando nel vecchio bar per il protagonista che ha già ripercorso le vicende del proprio doloroso accompagnare Jacopo, il figlio diciottenne autistico molto grave. Ogni cosa, fotografia ingiallita, quadri e poster, così come il mobilio, i ninnoli sopra il camino, e ancora più sopra la testa di cinghiale in bella mostra, tutto in quella sala ristorante sa di un passato andato via per sempre (I, VI). Solo il dolore non passa e non muta nel tempo.

Dentro a quelle circostanze abitano le persone che vengono in contatto con Pietro, il protagonista, e il suo fardello di dolore.  E le persone chiedono di Jacopo, incuriosite o per compassione: «Perché sta così?» Ecco il momento. E il come e il cosa e il perché… «Non parla, da solo non fa nulla, si piscia e caca addosso.» La scena si svolge per arrivare a un compimento. Pietro, da grande attore, la ripete ogni volta sperando nel successo, e per lui il successo è uno solo. Il silenzio. Togliere al mondo la voglia di parlare, continuare a chiedere (I, III).

Il protagonista vive il suo dolore cercando di dominarlo – in fondo di accettarlo – da solo, senza riuscirci. Ha chiesto il miracolo: Il miracolo non è mai arrivato. Come unica risposta, da est è spuntato l’odio. Ha ricoperto tutto, i sani e i malati, la vita intera. Per anni è stato così. Poi pure l’odio è tramontato. Resta la rabbia, quando esplode (I, VIII). Odio e rabbia per il figlio, per sé stesso, per tutto.

Pietro chiede agli altri quel rispetto che, per non averlo sempre avuto, crede sia il motivo della disgrazia di Jacopo. Glielo diceva sua madre, prima di morire, che il male altrui va rispettato. Ed ecco la condanna (II, I). Anche altri personaggi mendicano rispetto, come Agata, la barista, nei confronti degli avventori e del marito defunto. «Quando era vivo Arturo qui dentro non volava una mosca, c’era educazione, poi lui è morto e ora certi omuncoli pensano di fare come fossero a casa loro. Io sono una donna, non mi rispettano» … «La verità, però, è un’altra. Questi quattro scellerati non mi rispettano perché il primo a non farlo era Arturo» (II, VI).

Il rispetto sembra l’unico atteggiamento adeguato di fronte al male e al dolore, alla sua ineluttabilità e alla sua incomprensibilità e in fondo nel romanzo il rispetto prima o poi ognuno è costretto a darlo.

Rispetto: guardare gli altri sapendo di essere guardati a nostra volta; ma tra i personaggi non c’è apparentemente nessuno che ricorda chi è colui che ci guarda. Il rispetto si ferma alle soglie del dolore, non può fare altro, non può reggere di fronte alla desolazione. Altre malattie sono battaglie. Questa, questa è più una specie di maledizione. L’unica cosa che mi viene in mente quando lo guardo è: perché a me? Cosa ho fatto di male? (III, III).

Gaia, una presenza amica, riesce a spostare Pietro per un attimo dalle sue angosce. Pietro resta a fissarla mentre si allontana, intanto prova a dare un nome a quello stato d’animo che gli è esploso dentro improvvisamente. Eccolo il nome. Gelosia. Dopo tanto tempo, è geloso di qualcosa. Qualcuno (II, VI). Per un attimo S’era dimenticato del figlio. Una sorta di miracolo (III, V).

Questo timido spunto è l’inizio di una contrastata presa di coscienza che promette un nuovo inizio, accettando la compagnia degli altri sul nostro cammino. Nella sala ristorante ritrova Agata accanto al loro tavolo. Ha iniziato a sparecchiare. Si volta verso di lui, ha gli occhi invasi di pianto. «Guardi.» Con una mano, con il palmo aperto, leggera, sta accarezzando Jacopo.… Pietro è colpito, finge di non esserlo, non vuole dare peso alla cosa. «Quanto è bello.» Agata non smette di piangere (III, VI).

Ma è una lotta ben dura il dover ammettere che “occorre riavere noi dagli altri” come diceva Cesare Pavese. No. Questo no.  Pietro con la pietà ha chiuso. Jacopo, lo Scrondo, non è bello, né buono né bravo. Vorrebbe lei, la pietà, tornargli in gola come un fiotto d’acido dallo stomaco. Ma lui glielo impedisce (III, VI).

Fino all’epilogo dura questa lotta per risolversi in circostanze che è meglio lasciare alla lettura, ben consci, come l’Autore, che queste cose non succedono solo nei romanzi.

E come Daniele scrive nei ringraziamenti, occorre volgere lo sguardo anche A chi tende la mano, senza mai ricevere aiuto, o carezza. Ai dimenticati che resistono. A chi è andato giù.

Corrispondenze esistenziali con Sempre tornare di D. Mencarelli

Mi sono impegnato nella lettura del libro Sempre tornare di Daniele Mencarelli (Mondadori, 2021) l’ultimo della sua trilogia, dopo aver constatato la singolare corrispondenza di sentire tra me e l’Autore. Il libro narra del viaggio di un diciassettenne che lascia bruscamente la compagnia con la quale progettava di passare le vacanze estive e ritorna a casa facendo un lungo viaggio, da solo e attraversando con mezzi di fortuna mezza Italia all’inizio degli anni ’90, incontrando tante persone, ognuna delle quali gli rivela qualcosa su di sé. Il cammino che Daniele descrive per comunicarci che la vita è una continua scoperta di sé stessi ha il potere di provocare l’approfondirsi del giudizio sul mio cammino, iniziato un po’ prima – nel ‘91 avevo già quattro figli –, ma non dissimile dal suo nei dettagli di tempo e di spazio in cui si è svolto.

Nell’accostarmi all’opera di un altro, a un quadro per esempio ma soprattutto ad un libro, mi capita spesso di ritrovare qualcosa che avrei potuto scrivere quasi allo stesso modo, come se attraverso l’autore essa fosse stata pensata appositamente da me e per me. Questo mi rende sempre totalmente incapace di una critica del testo nel senso comune del termine, ma sempre si dimostra in grado di evocare in me un senso più grande del vivere che diventa appunto una esperienza comune.

Non voglio dunque analizzare quest’opera o prenderne spunto per parlare d’altro ma mi concentro su quel che mi accomuna all’autore soffermandomi in maniera non sistematica su alcuni temi tra i numerosi che gremiscono queste pagine, ben sapendo che gli eventi ci possono rendere più consapevoli, ma quello che siamo nel profondo resta un marchio immodificabile. Come la nostra altezza, o il colore degli occhi.(Cap 13)

Vivere insieme

Una vita fatta comunità. Semplicemente perché è più logico (Cap 7). Anche per me questo è insieme l’inizio e la sintesi di ogni posizione, o almeno dovrebbe esserlo come risultato di una riflessione leale su quel che capita. Soltanto che la riflessione non mi ha mai soddisfatto, anzi spesso mi ha esaltato fino a condurmi all’errore. Ho iniziato dalla considerazione semplice e solitaria delle cose naturali, come accadeva per esempio davanti alle vetrine del museo di storia naturale di Milano. Come tutti i bambini ero colpito dai mammiferi selvatici e domestici ma davanti a quelle vetrine mi accorgevo che qualcosa non tornava: mi pareva che quegli animali fossero estremamente lontani da noi uomini, e non semplicemente perché erano lì morti e impagliati. Negli anni ho capito che dipendeva dal fatto che lo sguardo inespressivo degli occhi di vetro delle tassidermie non era poi molto diverso da quello che vedevo dal vero o nei documentari. Uno sguardo colmo di una grande assenza; sto pensando agli occhi dei predatori che fissano le prede prima dell’attacco o agli occhi delle prede mentre vengono azzannate alla gola; ma è lo stesso anche per lo sguardo più comune dei conigli, dei ratti, dei piccioni, dei maiali, dei gatti e via elencando. Certo alcune specie domestiche come i bovini e i cavalli, e specialmente alcune razze di cani, sembrano comunicare qualcosa con lo sguardo, qualcosa che tuttavia resta sempre labile e insondabile. Proprio come ritrovo in questo passaggio del libro. Ho sempre avuto la sensazione che negli occhi degli animali, dentro certi sguardi come quello che mi sta offrendo questo gatto di strada, passi un desiderio enorme di comunicare nell’impossibilità di farlo. (Cap 5)

Sarebbe ben più logico dunque vivere insieme, uomini e animali, come ricorda Daniele. Non bastasse il sangue, il corpo, un cuore, anche le povere cose che ci servono per vivere ci ricordano che siamo tutti uguali, abbiamo stessi bisogni, abitudini, e identico destino. Identico è anche il tempo che ci scorre addosso, che fa diventare grandi i bambini e vecchi gli adulti. L’umanità è una, e quello che ci divide sarà sempre infinitesimamente più piccolo rispetto a tutto quello che ci unisce. (Cap 7)

Un’esperienza comune eppure in qualche modo anche originale. In natura niente è mai completamente uguale ad un’altra entità analoga. Non è mai esistita né mai esisterà una nuvoletta completamente uguale ad un’altra, o un seme o un maiale d’allevamento o un fungo o un pezzo di roccia o una persona. Nella loro sterminata moltitudine gli esseri animati o inanimati dello stesso tipo sono sempre lievemente diversi tra loro e, anche se posso riconoscerli agevolmente quando li vedo, non posso spiegarli del tutto perché mantengono una singolarità propria che mi appare l’indizio di quel quid che tiene insieme fissità e variazione e che sfugge alla comprensione.

Violenza, desolazione e solitudine

Il desiderio di vivere insieme, di comunione, quando è spesso coartato, può diventare drammaticamente violento. Il mostro che abita nella mia testa gioca a sovrapporre quello che io vivo, e amo, con ciò che accade nelle vite degli altri (Cap 12). Eppure esistono assonanze – o dissonanze – misteriose se una frase praticamente identica è usata dalla Beata Benedetta Bianchi Porro per definire la carità: la carità è abitare negli altri, ed ognuno ogni giorno è posto davanti a questa alternativa.

Altrimenti questo desiderio può trasformarsi in una terra desolata. Cosa ho più degli altri venuti prima di me? E di tutti quelli che mi seguiranno? Niente. Assolutamente niente. Come loro sono venuto al mondo senza averlo chiesto, e me ne andrò allo stesso modo. Dopo aver vissuto e amato in una terra straniera (Cap 49). Perché l’abisso che siamo non si riempie mai: occhi avidi sempre di vedere, orecchi mai riempiti di sentire (Qohelet 1,8). E non resta niente.

Eppure, come dice l’Autore in una delle affermazioni capitali del libro, non si resta mai soli: Stare da soli vuol dire stare con tutti (Cap 43). Questa è la fine e l’inizio di ogni viaggio. Per scoprire quello che siamo veramente, abbiamo solo una maniera. Farcelo dire dagli altri (Cap 49) proprio come recita la famosa frase dell’epistolario di Pavese: Mistero, perché non ci basti scrutare e bere in noi ma ci occorra riavere noi dagli altri.

Capire il senso di tutto

La possibilità di capire. Non desidero dalla vita che questo. (Cap 2)

Al Camposanto Monumentale di Pisa, quando avevo pochi, anni mi trovai difronte all’affresco Trionfo della morte di Buonamico Buffalmacco. Nella prima scena in basso a sinistra all’altezza di testa di bambino potevo distinguere tre bare aperte con in vista i resti di un nobile, un ecclesiastico e uno scheletro contornato da serpenti e vermi. Prima di allora nessuno si era preoccupato di indorarmi la pillola e così sono stato esposto senza spiegazioni al duro destino di noi viventi riprodotto su un muro di un cimitero medievale. Da quel momento mi ha interessato il tema della morte e del Giudizio Universale di cui occorre avere timore, ma che anche occorre desiderare perché finalmente ogni cosa torni al suo posto, secondo una misura che non è la nostra; quando ogni persona andrà giudicata nel complesso delle vicende universali; un giudizio del quale verremo messi a parte non per soddisfare il nostro desiderio di ficcanasare nella vita degli altri ma perché risplenda la gloria di colui che tutto move.

Quante volte mi sono chiesto che senso possono avere certi episodi e che giudizio ultimo se ne potrà dare. Che dire del gigante patagone imbarcato da Magellano durante il periplo del mondo come trofeo da mostrare agli amici e morto di stenti con in mano il crocefisso durante l’attraversata del Pacifico? Il far schiavi del resto era cosa comune fra i portoghesi autorizzati a questo dalla bolla papale Dum Diversas del 1452. O come giudicare l’oscuro addetto ai trabucchi dell’orda d’oro di Ganī Bek, intento a dare inizio alla grande peste del ‘300 catapultando cadaveri infetti dentro le mura di Caffa, colonia genovese di Crimea? Oppure cosa pensare dei coloni olandesi del capo di Buona Speranza che lasciarono la patria nel ‘600 e vissero tanto isolati da essere l’unico gruppo europeo a non aver conosciuto la Rivoluzione Francese? Forse per questa ragione l’apartheid era un problema che i boeri che ho incontrato non riuscivano bene a capire. Ma soprattutto cosa sarà di Rudolf Höss il comandante del campo di Auschwitz responsabile diretto della eliminazione di milioni di persone, condannato a morte e confessato in extremis da padre Wladyslaw Lohn un gesuita polacco che aveva cercato di farsi internare nel campo dove erano reclusi i suoi confratelli, ma inspiegabilmente ne era stato respinto?

«La confessione durò e durò e durò, finché non gli diede l’assoluzione: “Ti sono perdonati i tuoi peccati. Rudolf Höss, tu l’animale, i tuoi peccati ti sono perdonati. Vai in pace”». Il giorno successivo, prima dell’esecuzione, il gesuita tornò per dare la Comunione al condannato. La guardia che era presente confessò poi che quello fu uno dei momenti più belli della sua vita: «Vedere quell’animale in ginocchio, con le lacrime agli occhi, come un bambino che sta per ricevere la Prima Comunione, Gesù, con il cuore».

Un abbraccio di fronte al dolore

Quel che fa specie nell’esperienza è il dolore che sembra assolutamente inconciliabile con la vita, così come dice Daniele: Io c’ho guardato dentro il dolore. Ma non c’è niente. È solo dolore (Cap 39). In fondo questa è la misura del viaggio: o morirò io o morirà il dolore che mi ha divorato gli occhi (Cap 28).

Nel libro è chiaramente indicata la strada: Ci vorrebbe qualcuno, un adulto, un maestro, che vada da quei due e con buone parole, la giusta persuasione, spezzi la tradizione, in virtù di una novità incredibile. Il bene (Cap 30). E questo è quello che mi è capitato: l’abbraccio di Uno che mi vuole bene. Un abbraccio che è proposto a tutti. Se davvero il gesto dell’abbraccio fosse un indizio di tutto quello che cerco di capire? (Cap 21)

E in quell’abbraccio O prima o poi verrò io da te, per vedere con gli occhi, per sapere di cosa è fatto questo amore, se di eterno oppure polvere (Cap 15).

Nella vita si sceglie veramente poco (Cap 15), forse soltanto di cedere a quell’abbraccio

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