Categoria: Lettori alla Prova Pagina 1 di 2

Lo sguardo interpretativo del lettore su classici e non

Dostoevskij: la speranza sulle labbra di un ubriacone

di Laura Cioni

«Perché si dovrebbe aver pietà, dici? Sì! Non c’è motivo d’aver pietà di me! Bisognerebbe crocifiggermi, mettermi in croce, invece di avere pietà! Ma crocifiggimi, giudice, crocifiggimi pure, e, dopo avermi crocifisso, abbi pietà di me! E allora io stesso verrò da te per essere crocifisso, poiché non è l’allegria che bramo, ma il dolore, e le lacrime! … Pensi forse, oste, che questo tuo mezzo fiasco mi abbia dato dolcezza? Il dolore, il dolore io cercavo in fondo ad esso, il dolore e le lacrime, e l’ho assaporato, l’ho fatto mio; e avrà pietà di noi Colui che di tutti ha avuto pietà e che tutti ha compreso, Egli è l’unico, ed Egli è anche il giudice. Verrà quel giorno, e domanderà: ‘E dov’è quella figlia che si è immolata per una matrigna tisica e malvagia, e per dei bimbi piccoli che non le erano fratelli? Dov’è quella figlia che ebbe pietà del padre suo terreno, un ubriacone impenitente, senza provare orrore per la sua bestialità?’. E dirà: ‘Vieni! Io ti ho già perdonato una volta… Ti ho perdonato una volta… Siano perdonati anche adesso i tuoi molti peccati, per il fatto che tu molto hai amato…’. E perdonerà la mia Sonja, la perdonerà, io so bene che la perdonerà… Poco fa, quando sono stato da lei, l’ho sentito nel mio cuore! … E tutti giudicherà e perdonerà, e i buoni e i cattivi, e i saggi e i mansueti… E quando avrà finito con tutti gli altri, allora apostroferà anche noi: ‘Uscite – dirà – anche voi! Uscite, ubriaconi, uscite, deboli, uscite uomini senza onore!’. E noi usciremo tutti, senza vergogna, e ci metteremo ritti dinanzi a lui. E dirà: ‘Porci siete! Con l’effigie della bestia e la sua impronta; ma venite anche voi!’. E l’apostroferanno i saggi, lo apostroferanno coloro che hanno giudizio: ‘Signore! Perché mai accogli anche costoro?’. E dirà: ‘Li accolgo, saggi, li accolgo, voi che avete giudizio, perché non uno di loro si è ritenuto degno di ciò…’. E tenderà verso di noi le braccia sue, e noi cadremo in ginocchio… E scoppieremo in pianto… E tutto capiremo! In quel momento tutto capiremo! …E tutti capiranno… Signore, venga il regno tuo!» (Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo).

Chi parla è Marmeladov, in una delle pagine iniziali di Delitto e castigo. Il suo scomposto discorrere da ubriaco riempie la bettola dove si è bevuto i soldi ricevuti poco prima da sua figlia Sonja, la prostituta che provvede alla sussistenza della famiglia.

C’è una parola che ritorna nelle frasi spezzate, dai nessi temporali e logici non sempre chiari. È la parola pietà, che trasforma la scena iniziale, fatta di lacrime, di debolezza, di malcelata vergogna, nell’aperto scenario del giudizio universale. Si avvera qui, in modo inaspettato, un’affermazione che sant’Agostino trae dalla sua esperienza di oratore, secondo cui la Parola è impressa dentro di noi non lontano da ciò che sta scritto nella nostra coscienza (Conf. I,18).

Marmeladov all’inizio chiede all’oste e agli avventori pietà per sé. Non ha cercato nell’ubriachezza il piacere, ma le lacrime per la sua misera condizione che sembra senza riscatto, avviluppata nel vizio senza che il pensiero della sua famiglia abbia il potere di guarirne o almeno di attenuarne gli effetti. Per questo cerca i soldi dalla figlia maggiore, Sonja. Chiede pietà per lei, sacrificata nel suo corpo per mantenere la famiglia, in realtà per pagare il vizio del padre. Il richiamo evangelico è esplicito: l’amore filiale purifica i peccati di Sonja fino al perdono, perché molto ha amato.

Lo scenario si spalanca a poco a poco e lo sguardo corre al giorno ultimo, quello del giudizio universale, nel quale tutto sarà perdonato, perché troverà la pietà di Colui che non distingue tra buoni e cattivi, anzi preferisce a quelli che si ritengono giusti coloro che non si sono mai creduti degni di salvezza.

«Venga il regno tuo!». Sulle labbra di un ubriacone l’ultima, riassuntiva parola della Scrittura.

La poesia di Giacomo Noventa, custode di una memoria di pace

Articolo in evidenza

di Laura Cioni

Spesso gli scenari delle guerre raccontate dai reduci parlano di gente umile e rocciosa. Di questo mondo fa parte Giacomo Noventa (pseudonimo di Giacomo Ca’ Zorzi). Volontario nella Grande guerra, tornato dal fronte si dedica a un impegno intellettuale che fa dei picoli il proprio centro di attenzione, usando una lingua tutta sua, una sorta di dialetto che più aderisce alla vita, sovente in polemica con la cultura ufficiale. La sua produzione è raccolta nel volume Versi e poesie, Marsilio, Venezia 1986.

In questa poesia Noventa ricorda alcuni episodi della vita militare, il rapporto tra i “veci” e le giovani reclute, fatto dell’amore al loro paese e ai campi coltivati. Una storia d’amore collega il paese lontano e i coscritti.

Co se gera soldai dentro in trincea,
O a riposo o marciando o a l’ospeal,
E i compagni più veci ne diceva,
E parlasseli pur del so paese,
Dei campi e del lavoro lassài là,
Una storia d’amor,
Gerimo in tanti a no’ saver ancora
Quel che fusse una dona, e se ascoltava,
Se inventavamo un nome, e se moriva,
(Se imparava a morir…)
.

La vita vissuta e l’inesperienza si intrecciano fino a toccare il confine della morte vicina. Ma in quelle giornate in trincea c’erano, inaspettatamente, anche altre presenze, più lontane, quelle dei poeti della tradizione italiana.
Virgilio aveva detto nella sua nona bucolica che i canti agresti durante le guerre hanno valore quanto le colombe al sopraggiungere dell’aquila. Qui Noventa sembra ribaltare l’immagine e assegnare alla voce della poesia il compito della memoria e dell’insegnamento, non solo in momenti particolari, ma in quella battaglia della vita in cui tutti siamo impegnati.

Ancuo legendo, come i fusse vivi,
In Giacomo, in Francesco, in Dante e in altri
Cari poeti, o nostrani o foresti,
Me xè vignùo un pensier:
Che noialtri se sia come i coscriti
In una guera granda, e che i poeti
Sia come quei soldai che ne diceva,
E parlasseli pur del so paese,
Dei campi e dei lavori lassài là,
Una storia d’amor.

Tutti possiamo trovare nella lettura dei grandi del passato la maestria nell’uso della parola che arricchisce la mente e rende più accorta la volontà.

La potenza ambigua della natura

Rileggendo Romeo e Giulietta

di Laura Cioni

Ѐ l’alba del giorno più triste per Giulietta e Romeo. Dopo la notte d’amore, la scena si muove verso un esito tragico. Ma prima c’è una pagina meditativa, che in parte anticipa quello che avverrà. Frate Lorenzo si leva molto presto per raccogliere le erbe. La bellezza così abituale e così nuova alla quale si affaccia lo sospinge a una riflessione che è insieme pratica e poetica.

Il mattino dagli occhi grigi sorride alla cupa notte,
mandando strisce di luce verso le nuvole d’oriente;
e l’oscurità già livida di macchie, come un ubriaco che barcolla,
si allontana dal sentiero del giorno e dalle ruote di fuoco del Titano.
Ora, prima che il sole giunga col suo occhio di fiamma
a rallegrare il giorno e ad asciugare
l’umida rugiada della notte,
io devo riempire questo paniere di vimini
con erbe velenose e fiori dal succo prezioso.
La terra è madre e tomba della natura:
il suo sepolcro è il grembo dal quale ha origine
la sua vita; e noi vediamo nascere
da questo grembo figli di varie specie, che succhiano
dal suo seno. Alcuni, ottimi per numerose virtù
(nessuno che ne sia privo), e ognuno differente dall’altro.
Oh, come grande e potente è la virtù che risiede nelle piante,
nelle erbe, nelle pietre, e nelle loro più segrete qualità!
Infatti nulla esiste sulla terra di così umile,
che non possa dare alla terra qualche bene particolare;
e nulla è così buono che, sviato dal suo uso,
non si ribelli alla sua vera natura, cadendo nell’abuso.
La virtù stessa, male adoperata, può diventare un vizio,
e qualche volta il vizio si nobilita per la sua azione.
Sotto la tenera membrana di questo fragile fiore,
c’è insieme un veleno e un potere medico;
infatti se l’odori, eccita ogni senso,
se lo assaggi, ferma il cuore e tutti i sensi.
Come nelle erbe, così nell’uomo stanno accampati
due re nemici: la grazia e la volontà spietata.
E quella pianta dove predomina la peggiore di queste
forze, è presto divorata dal cancro della morte.

(Romeo e Giulietta, atto II, scena III)

L’assiduo compito del giardiniere e la conoscenza della farmacopea del tempo contribuiscono a una visione della terra come operosa fattrice della vita e insieme tomba che copre il disfarsi e poi il rivivere di erbe, piante e pietre. Non è lontana l’eco di Virgilio, ma neppure il remoto ricordo dell’Eden. Ѐ un inno al bene che c’è in ogni creatura, ma anche l’avvertimento di una ambiguità che deve essere attentamente considerata. Tutto in natura coopera al bene, a patto di non cadere nell’abuso.
Questa non è una pagina scientifica nel senso odierno del termine; non contiene formule, non misure, ma è guidata da uno sguardo amante per lunga consuetudine. In una cultura settoriale e specializzata, come è quella in cui viviamo, la riflessione di Shakespeare potrebbe servire da introduzione a molti libri di scuola. La conoscenza è unitaria, prima di volgersi ai vari rami del sapere.
Il duplice volto delle cose viene snidato anche nell’uomo, in guerra tra due tendenze, la grazia e la volontà spietata, l’accoglimento del dono della vita e la sua negazione. Non si tratta di bene e male, ma di qualcosa di più profondo, inerente alla natura stessa di una creatura che ha il singolare potere di tendere alla luce o di lasciarsi divorare dal cancro della morte.
Tutti sappiamo l’esito tragico dell’amore dei due giovani. L’abuso della volontà spietata delle loro famiglie in lotta genera la morte. Ma questa non è l’ultima parola: la pace degli animi è frutto anche della grazia, che stende sulla vicenda un velo di luce.

Anche nel buio della notte, il filo di una speranza

Invito alla lettura di Federico Pichetto, Perdonare la notte, Effatà Editrice, Cantalupa (TO) 2024, pp. 175, euro 16.00.

di Laura Cioni

Il titolo del libro di Federico Pichetto, Perdonare la notte, introduce con efficacia il contenuto, costituito da dodici interviste immaginarie a personaggi che hanno vissuto la notte del dolore, della malattia, della solitudine e che non ne sono state risucchiate.
L’esistenza umana solo di rado è lineare, ma quella dei dodici intervistati è aggrovigliata in modo particolare da situazioni di cui la cronaca sovente parla, ma senza capacità di scendere oltre la superficie. Qui non c’è curiosità, ma il desiderio di capire origine e sviluppo di vite in cui si intrecciano buio e luce, errori e riprese, in cui l’imprevisto è in agguato ad ogni svolta. Ma come una sorpresa è presente anche un filo di accettazione. Proprio questo è “perdonare la notte”, non solo alla fine del travaglio, ma come un mistero nascosto che include e collega le vicende.
È il caso dello scrittore famoso, aggredito dal disturbo bipolare, che fa della sua vita in manicomio una scuola di speranza. O quello di una cantante che perde il figlio in un incidente e vede ricostituirsi la sua famiglia attorno a quel dolore che avrebbe potuto invece distruggerla.
Si potrebbe dire che tutto il dolore racchiuso in queste pagine è intrecciato a una sorta di speranza e che la narrazione, di per sé drammatica, acquista un lieve timbro di pace.

La “mitezza” dell’amore che non può finire

Un musical sul mito di Orfeo e Euridice

di Laura Cioni

Con grande riscontro di interesse, la Scala di Milano ha ospitato il 19 gennaio 2025 la prima proiezione del film The Opera! Arie per un’eclissi: un'opera-musical che racconta in chiave moderna il mito di Orfeo ed Euridice ambientato nella nostra contemporaneità. L’opera è stata portata sullo schermo da Davide Livermore e Paolo Gep Cucco, con i costumi di scena firmati Dolce&Gabbana (qui anche in veste di produttori). Si tratta di un film-evento, che in seguito è stato possibile guardare, ascoltare e ammirare al cinema solo nei giorni 20, 21 e 22 gennaio 2025.

Virgilio non aveva a disposizione musica, danza, abiti e strumenti digitali quando scrisse la leggenda di Orfeo e Euridice, riproposta recentemente alla Scala di Milano in uno spettacolo ricco di suoni e colori. Aveva lo stilo, mosso da un sentimento partecipe del dolore della vita. Quella che racconta nel quarto libro delle Georgiche è una leggenda antica di millenni, a noi pervenuta soltanto attraverso la sua poesia, in sostituzione dell’elogio di Cornelio Gallo caduto in disgrazia presso Augusto e per questo epurato.
Orfeo, il mitico musico che ammansiva le fiere con la dolcezza del suo canto, ama e sposa la ninfa Euridice. Nel fuggire dall’indesiderata corte di Aristeo, ella muore per il morso di un serpente. Tutta la natura piange con Orfeo, che tenta di consolarsi cantando sulla riva deserta la sposa perduta. Grazie alla dolcezza del suo canto ottiene di varcare la soglia dell’Ade, là dove regnano cuori incapaci di essere addolciti da preghiere umane. Si inoltra nelle tenebre paurose dell’oltretomba e le tenui ombre gli si avvicinano, innumerevoli come gli uccelli che si celano nelle fronde degli alberi quando la pioggia invernale o la sera li cacciano dalle montagne; sono imprigionate dalla palude stigia e le accompagnano le Eumenidi, giù negli inferi più cupi. Tutti sono pieni di incanto nell’ascolto di Orfeo ed egli ottiene da Proserpina di riportare in vita Euridice. Sembra che la poesia, penetrata nel regno della morte, ottenga di far rivivere quello che era perduto per sempre.
Ma c’è una condizione: Euridice sale verso la vita seguendo Orfeo, che non deve girarsi a guardarla prima che entrambi giungano alla luce: ma proprio sulla soglia Orfeo viene preso da una incauta follia, viola i patti imposti dagli dei inferi e si volta a guardare la diletta sposa. Impazienza scusabile, se i Mani sapessero perdonare. In un attimo tutto è perduto. La terra trema e si ode la voce di Euridice: «Ora addio. Vado circondata da una immensa notte, tendendo a te, ahi non più tua, le deboli mani».
Invano Orfeo cerca di afferrare l’ombra, di ridiscendere per la palude. La via è sbarrata. Per lunghi mesi piange, commuovendo le tigri e le querce, come all’ombra di un pioppo l’usignolo lamenta i piccoli perduti perché una mano cattiva li ha sottratti dal nido.
Non è, come appare a prima vista, una tragedia. Ѐ l’elegia dell’amore umano, impotente davanti alla morte. È la consapevolezza che anche l’arte non riesce a riportare in vita ciò che si è perduto e che si rivorrebbe. Ma pur intriso di lacrime, è un dolore che non si ribella, che accetta il limite di cui la natura è fatta e che con questa mitezza accoglie dentro di sé la vastità della sofferenza del mondo.

Stoner, di John Williams

Letto da Mario De Simoni

Pubblicato nel 1965, Stoner ha una storia editoriale abbastanza insolita. Il suo autore, John Williams, aveva ricevuto il premio del National Book Award, con il libro Augustus. Continuò a scrivere per tutta la vita, sino alla morte avvenuta nel 1994, ma non ottenne mai un grande successo. Non in vita, almeno. Una riedizione di Stoner del 2012 riportò sotto i riflettori un libro che aveva colpito molti lettori e numerose case editrici internazionali. Il successo di Stoner nasce da una riscoperta postuma, dalla scoperta di una qualità di scrittura esemplare e dalla proposta della vita di un uomo che non deve vincere a tutti i costi, che non deve essere un eroe del proprio tempo, ma che si offre come un uomo dalla vita quasi nascosta, ma che per questo si afferma come esempio del nostro tempo.
Due parole sull’autore John Williams: nato in una famiglia di modeste condizioni economiche del Texas, si iscrisse all’Università di Denver solo dopo la fine della seconda guerra mondiale, durante la quale aveva combattuto in India e in Birmania dal 1942 al 1945. Rimase a Denver per tutta la vita, dove insegnò letteratura inglese presso l’Università del Missouri. Poeta e narratore, John Williams è stato riscoperto negli ultimi anni, diventando un vero e proprio fenomeno di culto a livello internazionale. Tra i romanzi più celebri, oltre a Stoner e Augustus, abbiamo anche Butcher’s Crossing e Nulla, solo la notte.

Stoner è il racconto della vita di un uomo normale. Il protagonista lascia la fattoria dei genitori per recarsi all’università con l’obiettivo di conseguire un titolo di studio in Agraria:

«L’ispettore della contea dice che adesso hanno delle idee nuove, dei modi di fare le cose che ti insegnano all’università». «Vuoi davvero che vada? – fece come se sperasse in un rifiuto. È questo che vuoi?».

Nel corso degli studi incontra un anziano professore che gli fa capire che la sua inclinazione più vera è quella di insegnare:

«Ma non capisce, Mr. Stoner? – domandò – Non ha ancora capito? Lei sarà un insegnante». «Come può dirlo, come fa a saperlo?». «E’ la passione, Mr. Stoner – disse allegro Sloane – la passione che c’è in lei».

Questo è un primo aspetto interessante: la scoperta di un’inclinazione – si potrebbe dire anche di una vocazione nella vita – diversa da quella che si aspettavano sia i genitori che lui:

«Non so – disse suo padre – Non immaginavo che sarebbe andata a finire così. Pensavo di aver fatto il meglio che potevo per te, mandandoti qui. Tua madre e io abbiamo sempre fatto del nostro meglio». «Lo so – disse Stoner». Non riusciva più a guardarli negli occhi.

Stoner svolge così un ruolo importante come docente universitario, ma si direbbe diligentemente, senza grandi slanci apparenti:

Nei semplici esercizi di composizione che preparava per gli studenti coglieva le potenzialità della prosa e la sua bellezza, e non vedeva l’ora di trasmettere ai suoi allievi il senso di quelle scoperte. Ma quando arrivò il primo giorno e cominciò a spiegare alla classe, scoprì che quell’entusiasmo rimaneva nascosto dentro di lui.

Anche nei confronti della guerra, «ora che, come tutti, se la trovava davanti, scopriva dentro di sé una vasta riserva d’indifferenza». Solo quando si trova di fronte, nel suo lavoro, all’opposizione del direttore di dipartimento, per difendere il suo ruolo di insegnante ingaggia con lui uno scontro lungo e pesante. Infine, quasi inevitabilmente dopo un corteggiamento assiduo e faticoso, si prende una moglie, Edith, che gli dichiara la sua volontà di fedeltà: «Cercherò di essere una buona moglie per te, William, Cercherò». Tuttavia, nel giro di un mese Stoner realizza che il suo matrimonio è già un fallimento. Edith infatti è un soggetto apatico e quando è attiva sembra essere posseduta dal male, che la spinge a mettere Stoner in un angolo, sia nella loro casa, sia nella loro vita coniugale, sia allontanandolo da quella figlia che lei aveva fermamente voluto vivendo con lui due mesi di passione intensa e sfrenata. Una passione però che poco aveva a che fare con l’amore, e verso la quale, soprattutto nei primi anni, lui aveva nutrito un sincero affetto.

Quella di Stoner è una vita controllata, dunque, fino al giorno in cui all’improvviso compare, quasi come un’anomalia, il momento in cui lui conosce l’amore per una sua allieva, Katrine: una passione forte, coinvolgente, ma Stoner non arriva fino in fondo in questa relazione. A un certo punto fa un passo indietro, sembra quasi che preferisca proseguire in una vita priva di emozioni forti.

Quand’era giovanissimo Stoner pensava che l’amore fosse uno stato assoluto dell’essere a cui un uomo, se fortunato, poteva avere il privilegio di accedere. Durante la maturità, l’aveva invece liquidato come il paradiso di una falsa religione, da contemplare con scettica ironia, soave e navigato disprezzo, e vergognosa nostalgia. Arrivato alla mezza età, cominciava a capire che non era né un’illusione, né uno stato di grazia: lo vedeva come una parte del divenire umano, una condizione inventata e modificata momento per momento, e giorno dopo giorno, dalla volontà, dall’intelligenza e dal cuore.

Stoner si trova così, alla fine della sua vita, a desiderare qualcosa che in realtà non sa neanche lui, perché non sa darsi risposte, perché per tutta la vita non se ne è date: cosi doveva andare.

Era arrivato a un’età in cui, con intensità crescente, gli si presentava sempre la stessa domanda, di una semplicità così disarmante che non aveva gli strumenti per affrontarla. Si ritrovava a chiedersi se la sua vita fosse degna di essere vissuta.

Quando poi alla fine si trova sul letto di morte, il bilancio che tenta di fare della sua vita non gli appare affatto soddisfacente:

Spietatamente vide la sua vita come doveva apparire agli occhi di un altro. Ponderatamente, con calma, realizzò che doveva sembrare un vero fallimento. Aveva voluto l’amicizia e quell’intimità legata all’amicizia che potesse renderlo degno del genere umano. Aveva voluto l’unicità e la quieta indissolubilità del matrimonio, e non aveva saputo che farsene, tanto che si era spenta. Aveva voluto l’amore e ci aveva rinunciato, abbandonandolo al caos delle possibilità. Katerine, pensò, Katerine. Aveva voluto essere un insegnante e lo era diventato. Eppure, sapeva, lo aveva sempre saputo, che per buona parte della sua vita era stato un insegnante mediocre. Aveva sognato di mantenere una specie di integrità, una sorta di purezza incontaminata; aveva trovato il compromesso e la forza dirompente della superficialità. Aveva concepito la saggezza e al termine di quei lunghi anni aveva trovato l’ignoranza. E che altro pensò? che altro?

Il protagonista di questo romanzo apparentemente non ha nulla di attrattivo, così come gli altri personaggi del romanzo, che attraversano la loro esistenza con occhi diafani, cercando di smorzare i sentimenti già sul nascere. Ma quando il racconto finisce, ci si rende conto che potrebbe essere la vita di chiunque, descritta in modo semplice, senza slanci, ma in modo efficace, forte, e con un’elevata qualità letteraria. È il racconto dell’umano, è un romanzo su cosa significhi essere umani, in cui ciascuno può ritrovare almeno una parte di sé. Un racconto che ti coinvolge a mano a mano che lo leggi, facendoti intravvedere in ogni pagina un senso di riscatto, una possibilità di rinascita che non si avvera mai. Questa mi pare la grandezza del messaggio che l’autore sembra indicarci. All’ideale dell’eroe viene sostituito un anti-eroe che non fa cose straordinarie, che non compie imprese di grande valore. Emerge così, da questo libro, l’uomo, si potrebbe dire qualunque uomo, che vive la sua vita con umiltà, così come le circostanze gliela presentano.

I Have a Dream

Storie e memorie. L’incessante sogno di mondi diversi

Una riflessione sul sogno come categoria portante della memoria storica: l’agire degli uomini è sempre impregnato di ideali che prefigurano nuovi modelli di socialità.

Andrea Caspani, già dirigente Scolastico, è direttore della rivista online «LineaTempo. Itinerari di storia, letteratura, filosofia e arte» e docente di Didattica della Storia all’Università Cattolica di Milano. Autore del libro Insegnare storia. Una prospettiva umanistica, EDUCatt, Milano 2023.

Fabrizio Foschi è docente formatore e saggista. Autore di Una storia dell’epoca moderna. Spazi, trame, personaggi alle radici del nostro presente, Rubettino Scuola, Soveria Mannelli 2023.

Giorgio Cavalli, insegnante e saggista, è redattore della rivista online «LineaTempo. Itinerari di storia, letteratura, filosofia e arte». Autore di Angelo Giuseppe Roncalli cappellano militare nella Grande Guerra, Gaspari Editore, Udine 2023.

Coordina Adele Mirabelli, coordinatrice culturale dell’Istituto Don Bosco Village School di Milano.

Durata complessiva 1’20”

Dalla parte del de-siderio

“Aver cura” dell’altro è una prospettiva esistenziale, che va oltre la terapia e oltre l’insegnamento in senso stretto.

La riflessione-provocazione è di un’insegnante delle scuole primarie, Patrizia Sciocco, a partire dalla suggestione offerta da un libro del noto psichiatra Cesare Maria Cornaggia.

«La scienza ci può rendere edotti su ogni sorta di dettagli interessanti circa la natura umana, ma non può risolvere il problema riguardante la natura e l’essenza della condizione umana» (Martin Heidegger).

Ho letto il libro dello psichiatra Cesare Maria Cornaggia dal titolo Dalla parte del desiderio. Da una paternità un metodo nella cura (Inschibboleth, Roma, 2022) e, come chiedo ai miei alunni a scuola dopo la lettura di libri, cioè se consigliarli ai compagni di classe e perché, ora mi metto io in gioco, come ho imparato anche dalla lettura di questo “manuale di vita” in cui il terapeuta non è colui che ha la ricetta, ma è colui che si mette in gioco con il paziente, innanzitutto stimandolo.

Sì, è proprio così: io insegnante, lui psichiatra, abbiamo una formazione universitaria, siamo edotti dalla scienza (cfr. Heidegger), ma questo non basta per prendersi cura di un malato o di un bambino. Ecco cosa fa la diversità: la relazione, uno sguardo sull’altro che lo accoglie e l’accetta così com’è, tant’è che Cornaggia definisce la terapia come «un rapporto che cambia».

Lui lavora nella relazione uno a uno, io sono ogni giorno in classe con i miei bambini e faccio fatica a chiamarli “alunni”, perché troppo impersonale.

In entrambe le situazioni avvengono “miracoli” che ti chiedono tante energie, ma ti fanno tornare a casa con una gioia nel cuore imparagonabile a qualsiasi altra. E questo non solo perché l’altro impara o guarisce, ma perché un Altro te l’ha messo sul tuo cammino – e non è un caso – affinché tu possa dargli un po’ di quella felicità che, anche se con i tuoi limiti, sbagli e peccati, puoi tentativamente trasmettere nella tua relazione, che è “sacra”. E il dare è sempre abbinato a un ricevere, a una scoperta di sé, come spesso Cornaggia ripete in questo suo testo.

Personalmente ho incontrato maestre che hanno “infuso” panico in certi bambini, i cosiddetti più fragili, ma che in realtà sono i più sensibili, i più svegli nella lettura dell’umanità dell’altro. Non mi sono mai arresa di fronte a tali atteggiamenti, come Cornaggia non ha mai “mollato la presa” verso i suoi pazienti.

Caro dottor Cornaggia, siamo insieme nello stesso cammino, sia come persone che come “terapeuti dell’umano”, anche se in ambiti diversi, ma come ben sappiamo la persona è una.

Mai vorrei che un mio bambino arrivasse da lei con qualche mancanza da me causata!  

Ecco allora perché vale la pena non solo leggere il suo libro, ma riprenderlo spesso, per “lavorare” innanzitutto su me stessa e di riflesso su quei “piccoli grandi tesori” che Lui mi affida.

La Grande Guerra tra storia e memoria

Presentazione a più voci del libro di Giorgio Cavalli, Alla maniera dei briganti. La Grande Guerra del capitano Ettore Cavalli, Gaspari, Udine 2023

(3° premiato nella sezione “Narrativa edita” del Premio «Gen. Div. Amedeo De Cia»)

Centro PIME di Milano, Sala Girardi, 4 aprile 2023

Andrea Caspani, direttore di «LineaTempo»
Giorgio Cavalli, autore e redattore di «LineaTempo»
Claudio Lobbia, attore
Federica Garieri, violinista
Moderatore Enzo Riboni, giornalista del «Corriere della Sera» e scrittore.

Dopo un inquadramento storico di Andrea Caspani sul rapporto tra
memorie personali e grande storia, il video presenta alcune letture teatrali
di pagine tratte dal libro Alla maniera dei briganti.
Voce narrante di Claudio Lobbia in dialogo con il violino di Federica Garieri.
Le letture sono accompagnate da un ricco dialogo del giornalista-scrittore
Enzo Riboni con Andrea Caspani e con Giorgio Cavalli, autore del libro.

Durata complessiva: 2h 15’

Fame di aria

La recensione di Mario Lo Pinto all’ultima fatica di Daniele Mencarelli ci invita ad addentrarci nella scrittura tanto densa quanto limpida di uno degli scrittori più originali di questo nostro tempo di sofferenza e solitudine, nel quale, per parafrasare un altro suo libro, tutto chiede salvezza. Ma nel caso di questo romanzo, perfino la parola salvezza sembra non poter uscire dalla gola del protagonista, almeno fino a che … Ma è possibile riavere noi dagli altri?

Nel suo ultimo romanzo Fame di aria (Mondadori, 2023) Daniele Mencarelli continua ad approfondire il tema del dolore e del suo significato.

Lo fa con un testo simile a quello di un’opera teatrale, quasi una sceneggiatura, e non è difficile immaginare che prima o poi ne venga tratto un film. Il romanzo descrive le vicende di un uomo bloccato da un guasto alla macchina in un piccolo centro insieme al figlio disabile che lui chiama beffardamente lo Scrondo; narra degli incontri di un uomo rabbioso e infelice, in fuga dagli affetti e pronto a mentire per nascondere la propria condizione e le proprie ristrettezze economiche, fino ad un epilogo inaspettato ed intenso.

Le condizioni a contorno sono quelle di un paese della provincia italiana più profonda, destinato a sparire quanto prima; l’ambiente e le cose sono le antiche suppellettili, i vecchi bar, le pensioni chiuse da tempo e riaperte per caso; simili ricordi sono vividi per chi ha già qualche anno ma son forse destinati a non essere pienamente compresi dai più giovani. Perché questo è il motivo che rende quasi familiari i racconti di Daniele, qualunque cosa racconti, il fatto di poterlo seguire riuscendo a vedere noi stessi negli spazi di un’altra Italia che perdura nella memoria.

Si può viaggiare nel tempo (atto I, scena III) è la sensazione entrando nel vecchio bar per il protagonista che ha già ripercorso le vicende del proprio doloroso accompagnare Jacopo, il figlio diciottenne autistico molto grave. Ogni cosa, fotografia ingiallita, quadri e poster, così come il mobilio, i ninnoli sopra il camino, e ancora più sopra la testa di cinghiale in bella mostra, tutto in quella sala ristorante sa di un passato andato via per sempre (I, VI). Solo il dolore non passa e non muta nel tempo.

Dentro a quelle circostanze abitano le persone che vengono in contatto con Pietro, il protagonista, e il suo fardello di dolore.  E le persone chiedono di Jacopo, incuriosite o per compassione: «Perché sta così?» Ecco il momento. E il come e il cosa e il perché… «Non parla, da solo non fa nulla, si piscia e caca addosso.» La scena si svolge per arrivare a un compimento. Pietro, da grande attore, la ripete ogni volta sperando nel successo, e per lui il successo è uno solo. Il silenzio. Togliere al mondo la voglia di parlare, continuare a chiedere (I, III).

Il protagonista vive il suo dolore cercando di dominarlo – in fondo di accettarlo – da solo, senza riuscirci. Ha chiesto il miracolo: Il miracolo non è mai arrivato. Come unica risposta, da est è spuntato l’odio. Ha ricoperto tutto, i sani e i malati, la vita intera. Per anni è stato così. Poi pure l’odio è tramontato. Resta la rabbia, quando esplode (I, VIII). Odio e rabbia per il figlio, per sé stesso, per tutto.

Pietro chiede agli altri quel rispetto che, per non averlo sempre avuto, crede sia il motivo della disgrazia di Jacopo. Glielo diceva sua madre, prima di morire, che il male altrui va rispettato. Ed ecco la condanna (II, I). Anche altri personaggi mendicano rispetto, come Agata, la barista, nei confronti degli avventori e del marito defunto. «Quando era vivo Arturo qui dentro non volava una mosca, c’era educazione, poi lui è morto e ora certi omuncoli pensano di fare come fossero a casa loro. Io sono una donna, non mi rispettano» … «La verità, però, è un’altra. Questi quattro scellerati non mi rispettano perché il primo a non farlo era Arturo» (II, VI).

Il rispetto sembra l’unico atteggiamento adeguato di fronte al male e al dolore, alla sua ineluttabilità e alla sua incomprensibilità e in fondo nel romanzo il rispetto prima o poi ognuno è costretto a darlo.

Rispetto: guardare gli altri sapendo di essere guardati a nostra volta; ma tra i personaggi non c’è apparentemente nessuno che ricorda chi è colui che ci guarda. Il rispetto si ferma alle soglie del dolore, non può fare altro, non può reggere di fronte alla desolazione. Altre malattie sono battaglie. Questa, questa è più una specie di maledizione. L’unica cosa che mi viene in mente quando lo guardo è: perché a me? Cosa ho fatto di male? (III, III).

Gaia, una presenza amica, riesce a spostare Pietro per un attimo dalle sue angosce. Pietro resta a fissarla mentre si allontana, intanto prova a dare un nome a quello stato d’animo che gli è esploso dentro improvvisamente. Eccolo il nome. Gelosia. Dopo tanto tempo, è geloso di qualcosa. Qualcuno (II, VI). Per un attimo S’era dimenticato del figlio. Una sorta di miracolo (III, V).

Questo timido spunto è l’inizio di una contrastata presa di coscienza che promette un nuovo inizio, accettando la compagnia degli altri sul nostro cammino. Nella sala ristorante ritrova Agata accanto al loro tavolo. Ha iniziato a sparecchiare. Si volta verso di lui, ha gli occhi invasi di pianto. «Guardi.» Con una mano, con il palmo aperto, leggera, sta accarezzando Jacopo.… Pietro è colpito, finge di non esserlo, non vuole dare peso alla cosa. «Quanto è bello.» Agata non smette di piangere (III, VI).

Ma è una lotta ben dura il dover ammettere che “occorre riavere noi dagli altri” come diceva Cesare Pavese. No. Questo no.  Pietro con la pietà ha chiuso. Jacopo, lo Scrondo, non è bello, né buono né bravo. Vorrebbe lei, la pietà, tornargli in gola come un fiotto d’acido dallo stomaco. Ma lui glielo impedisce (III, VI).

Fino all’epilogo dura questa lotta per risolversi in circostanze che è meglio lasciare alla lettura, ben consci, come l’Autore, che queste cose non succedono solo nei romanzi.

E come Daniele scrive nei ringraziamenti, occorre volgere lo sguardo anche A chi tende la mano, senza mai ricevere aiuto, o carezza. Ai dimenticati che resistono. A chi è andato giù.

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