Dall’alto,

dalla punta estrema dell’universo,

passando per il cranio,

e giù,

fino ai talloni,

alla velocità della luce,

e oltre,

attraverso ogni atomo di materia.

Tutto mi chiede salvezza.

Per i vivi e i morti,

salvezza.

Salvezza per Mario, Gianluca, Giorgio, Alessandro e Madonnina.

Per i pazzi, di tutti i tempi,

ingoiati dai manicomi della storia.

Sono le parole della straziante invocazione che Daniele osa lanciare, premuto dall’affanno che gli toglie il respiro, al termine di un funerale abbattutosi come disgrazia imprevista sulla sua vita inquieta: quello per il compagno di stanza precipitato dalla finestra del reparto psichiatrico in cui insieme hanno trascorso una settimana. Lui colpito dall’ingiunzione di un Trattamento Sanitario Obbligatorio, inflitto dopo l’esplosione di aggressività di cui si era reso protagonista tra le pareti di casa, culmine dell’oscuro malessere in cui si trascinava da tempo, tra cadute depressive e dipendenze abbracciate come illusoria via di fuga, capovoltesi però in una morsa diventata sempre più soffocante; la vittima dell’incidente (o del suicidio?) ricoverata, invece, per il suo stato di ossessione maniacale che le impediva il ritorno a una vita normale.

La scena del funerale domina l’ultima puntata della serie televisiva Tutto chiede salvezza, libera rielaborazione del fortunato romanzo di Daniele Mencarelli del 2020, che porta il medesimo titolo. La serie è prodotta da Netflix, ma la scena del funerale si può vedere anche su internet.

Le secche parole balbettate da Daniele, che si possono immaginare ritmate come versi spezzati (sono però disposte in forma di prosa nella pagina di chiusura del romanzo scritto originariamente dall’autore), danno voce accorata a un grido sofferto. Tutta la vicenda dei sette giorni trascorsi nella struttura ospedaliera, sia pure con qualche concessione al gusto drammatico tinto anche di rosa per aumentare sullo schermo la forza di richiamo del racconto, è attraversata dall’implorazione di una spietata domanda. Uomini fragili, esposti nella più nuda essenza interiore all’urto delle circostanze, poco allenati a rivestirsi di solide armature protettive, ci riportano al nucleo più radicale del nostro esistere nel mondo. Emerge la dismisura di una sproporzione che sembra a volte incolmabile: nella tensione di una mancanza che ferisce nervi scoperti, la vertigine di un vuoto in cui si può rischiare di perdersi, che nessuna scelta ragionevole, o il ripiego in alcuna finzione decorosa, sembrano in grado di riempire fino in fondo. L’uomo è qui ributtato nel suo stato di mendicante: è un bisogno che attende di incontrare qualcosa che lo inglobi demolendone le punte dolorose, una sete che non può saziarsi da sé, e per questo ‒ anche senza esserne fino in fondo consapevole, senza dare un nome preciso alla meta ultima della sua attesa ‒ aspira con tutta sé stessa al dono di una salvezza. Ma una salvezza non artificiale, costruita da menti inaffidabili e mani incapaci di autentica presa: una salvezza dall’alto, dall’infinitamente oltre, dall’inesauribile di cui non possiamo essere padroni, che si rovesci su di noi inaspettata, in modi non programmati, magari imprevedibili e alternativi alla logica ordinaria di un progetto di vita (o di una vita spoglia del benché minimo progetto), e perciò una salvezza non in partenza corrotta, grondante di gratuità, piena del senso dell’alterità.

Quando questo grido affiora, stridendo, dagli anfratti più nascosti del cuore, risalendo dall’abisso più profondo della carne dell’esistenza, sana o malandata che sia, tutto intorno si fa silenzio: come nella chiesa del funerale per l’amico, alterato nell’instabile psiche, che ha cessato prematuramente (?) di vivere. L’implorazione del mendicante, spogliato di tutto, è contagiosa: la denuncia spudorata del limite, netta e senza veli, affratella. Ci si sente attirati nell’abbraccio di una compassione che è prima di tutto un condividere insieme, accettandosi nel respiro della misericordia. Sgorgano liberatorie le lacrime del sentirsi punti sul vivo, come succede agli attori di una fiction che è tutt’altro che una finzione evasiva: compagni del cammino di tutti i fratelli uomini che sono in ricerca, che sbagliano e non trovano, si smarriscono e dilapidano. Spartire con loro i doni a nostra volta ricevuti, qualcosa dei tesori verso cui i fatti della vita possono averci precariamente instradato, è la prima forma di una fraternità che accetti la sfida di rendersi sul serio aperta e disponibile, generosa e cordiale fino alla tenerezza dell’amicizia che sa accogliere e perdona.