Autore: Danilo Zardin

Dio non è da ‘presupporre’, ma da ‘anteporre’ (parte II)

In questa seconda parte della sua recensione al testo postumo del papa emerito Benedetto XVI, Zardin ci accompagna nella perlustrazione del rapporto Chiesa-stato, gettando luce sull’esigenza della libertà di coscienza come fondamento per la libera adesione alla fede, e dunque sulla contestazione di Joseph Ratzinger di qualsiasi pretesa fondamentalista di ritorno a forme attualizzate di alleanza trono-altare. La prima parte, ricordiamo, si era conclusa sulla sottolineatura da parte di Benedetto XVI del primato, nell’esperienza di una fede matura, della dimensione ontologica e veritativa sull’uomo rispetto a quelle, pur preziose, della morale e dell’estetica, troppo spesso ridotte a sentimentalismo e soggettivismo. Zardin ci mostra come l’originale agostinismo di papa Benedetto XVI non fosse una riedizione di schemi passati, ma piuttosto uno sguardo penetrante sulle esigenze di libertà e misericordia dell’uomo contemporaneo, all’interno di una dialettica sempre feconda e nuova tra fede e storia.

Su questa direttrice si innesta il secondo nodo cruciale di interesse che può essere rintracciato nei saggi entrati a comporre questa sorta di “testamento spirituale” lasciatoci da papa Benedetto, giunto al termine del suo percorso. Mi riferisco al modo in cui viene presentato l’impatto che l’appello alla sequela della verità del cristianesimo può avere sul contesto umano a cui si rivolge. Qui papa Benedetto non esita a riprendere un altro dei punti saldi della sua visione storico-teologica: nel tempo della storia, il “tempo dei pagani” (così lo definisce pensando al rapporto con la tradizione ebraica), di per sé esposto alla possibilità del rifiuto dell’alleanza con il vero Dio e la sua legge, l’accoglienza della fede cristiana non può accettare di corrompersi appoggiandosi allo scudo di tutela del potere (il potere di Cesare), e tanto meno all’imposizione costrittiva di un consenso obbligato, magari puntellato dalla violenza che aggredisce i diversi ed esautora ogni margine ipotizzabile di contestazione o di dissenso. L’intolleranza di un integrismo religioso che si fa anche pretesa di dominio globale sul mondo terrestre è antitetica rispetto allo spirito autentico della rivoluzione cristiana. Quest’ultima ha avuto come parte del suo codice genetico distintivo, poi non sempre portato a coerente dispiegamento, il compito di smantellare ogni pretesa di assolutezza della religione elevata a collante uniformatore di una comunità politico-territoriale. Lo “zelo” autoritario ed esclusivista della volontà di conquista di uno spazio umano magari recalcitrante appartiene ancora al vecchio orizzonte dell’alleanza antica (p. 33), immersa nella prospettiva a senso unico delle religioni che non avevano ancora conosciuto l’approdo al bilanciamento dialettico delle “due città” fra loro mescolate, ma allo stesso tempo distinte e non riconducibili a un unico principio di guida e di strutturazione normativa. Il contagio della fede nel Cristo redentore passava in origine e deve continuare a passare soltanto attraverso il rischio della libertà che pronuncia il suo sì di adesione alla chiamata da cui si sente percossa. Prima viene la grazia che si comunica, poi la mossa dell’io che riconosce l’inevitabilità di un cammino di immedesimazione.

In questa cornice si comprende perfettamente ‒ e qui il discorso di papa Benedetto tocca le punte di maggiore intensità coinvolgente ‒ perché la forma suprema della presenza della soggettività cristiana nel mondo non possa che coincidere con la figura del Figlio di Dio che si auto-espropria, offrendosi come carne sacrificale per la salvezza del mondo sul patibolo della croce. La straordinarietà del puro dono totale di Cristo, tutt’altro che interpretabile come sanguinosa “riparazione” in senso penale, finalizzata a sanare la frattura creata dalla colpa originaria, è il vertice della verità cristiana che si propone al mondo e, in quanto tale, reclama il sacrificio parallelo della volontà dell’uomo che le si affida. La forma di Cristo crocifisso, il Servo di Dio sofferente preconizzato dalla più ispirata letteratura profetica di Israele, è il centro verso cui tutto deve convergere, il cuore da cui si irraggiano le luci della rivelazione di Dio che sfocia nel suo culmine: al fondo della verità dell’essere non sta la potenza che fagocita e schiavizza, ma la debolezza gratuita dell’amore infinito che si dona e, donandosi, si espone alla contraddizione del farsi vittima, depredato dall’ostilità dell’uomo che può arrivare fino allo scandalo di non riconoscerlo come incarnazione del bene supremo per sé e il proprio destino.

La riconversione in senso cristocentrico della drammatica divino-umana conduce in modo diretto a introdurre il tema del primato dell’effusione del dono di misericordia del Dio trinitario al di sopra di tutto il resto. Il movimento della misericordia che si espande e attira nel suo spazio di novità redentrice l’uomo relegato nella distanza del suo limite è il perno autentico della storia del creato. La misericordia di Dio alla ricerca della salvezza dell’uomo è la fonte dell’unica “giustificazione” possibile: non quella della bilancia retributiva dei premi e dei castighi, ma dell’eccellenza sovrabbondante dell’amore senza riserve che vuole essere condiviso. È solo questa misericordia accolta e fatta fiorire nel cuore degli uomini che rigenera dall’interno la vita del mondo. All’inizio di tutto, sta il miracolo dell’amore incontenibile che si effonde e non viene mai meno: l’unica forza che va oltre le catene della morte. Essa è anche all’origine della missione cristiana (p. 9). Perché solo un “amore radicale e incommensurabile” come quello sprigionato dal “corpo risuscitato del Signore crocifisso” poteva agire come “reale contrappeso […] all’incommensurabile presenza del male. […] Di fronte alla strapotenza del male solo un amore infinito poteva bastare, solo un’espiazione infinita” (p. 90, ma si veda anche p. 95).

Si può aggiungere un ultimo corollario di altrettanto decisivo rilievo: è anche necessario “che noi ci inseriamo in questa risposta [al nostro male, alla nostra sofferenza] che Dio ci dà mediante Cristo” (p. 95). “Il Signore ha iniziato con noi una storia d’amore e vuole riassumere in essa l’intera creazione. L’antidoto al male che minaccia noi e il mondo intero ultimamente non può che consistere nel fatto che ci abbandoniamo a questo amore. Questo è il vero antidoto al male. […] È redento chi si affida all’amore di Dio” (p. 153). Nella scia della circolarità che si instaura, si radica la “pretesa” che la fede cristiana avanza “rispetto alla vita concreta”. La fede è chiamata a cambiare la forma di questa stessa vita, a riplasmarla secondo la propria misura. La vita come tale può risorgere, e diventare così, a sua volta, fonte di irradiazione di una luce che contagia nel fragile segno della testimonianza ecclesiale missionaria. Nella sua trama ordinaria, attaccandosi al modello paradigmatico di Cristo, la vita investita dalla fede tende a generare una morale, anch’essa ancorata al riconoscimento di un bene oggettivo e ai valori di fondo che aprono al suo perseguimento. La chiave di volta non sta però nell’apparato delle regole, nel dispositivo di una legge esterna codificata. Lo stile etico, per stare in piedi, non può che essere animato da un principio unitario vivificante: ha al suo centro un amore riconosciuto a cui si corrisponde, l’attaccamento a un Dio amoroso e presente, che abita con la sua prossimità ogni circostanza per cui ci si trova a transitare. Per riassumere in una massima lapidaria: “Il Dio trino, Padre, Figlio e Spirito Santo: non presupporlo ma anteporlo” (von Balthasar, citato a p. 155). In effetti, commenta a questo riguardo Benedetto XVI, “anche nella teologia, spesso Dio viene presupposto come fosse un’ovvietà, ma concretamente di lui non ci si occupa. Il tema ‘Dio’ appare così irreale, così lontano dalle cose che ci occupano. E tuttavia cambia tutto se Dio non lo si presuppone, ma lo si antepone. Se non lo si lascia in qualche modo sullo sfondo, ma lo si riconosce come centro del nostro pensare, parlare e agire”.

Dio non è da ‘presupporre’, ma da ‘anteporre’ (parte I)

Recensione di Benedetto XVI, Che cos’è il cristianesimo. Quasi un testamento spirituale, a cura di E. Guerriero e G. Gänswein, Mondadori, Milano 2023.

In questa prima parte Zardin ci accompagna nella perlustrazione del rapporto fede-ragione in ordine alla verità, svelandoci l’irriducibilità del pensiero di Joseph Ratzinger alle opposte riduzioni tradizionalista e ultra-modernista. La fede, ci dice Benedetto XVI, non è affare di puro sentimento o di puro soggettivismo: essa si presenta fin dall’origine come critica radicale all’alienazione delle antiche religioni prone ai poteri di questo mondo e come prosecuzione feconda della grande tradizione filosofica ellenistica.

L’opera intellettuale di Benedetto XVI è da tempo il campo di un conflitto di interpretazioni in cui la varietà delle opinioni di chi si pone davanti ai suoi testi finisce per produrre un effetto di appiattimento, se non di vera e propria distorsione: si enfatizza ciò che viene percepito più congeniale, in linea con i propri punti di vista precostituiti, mentre si lasciano in ombra le provocazioni che potrebbero mettere in crisi o costringere a cambiamenti salutari e, alla fine, prevale la tendenza ad annettere la sua parola in un reticolo di interessi che possono anche essere marcatamente divergenti. I conservatori accentuano gli elementi che legittimano, ai loro occhi, la difesa tenace degli assetti tradizionali, oppure mettono in evidenza, per denunciarle, le fughe in avanti che, a parere dei più oltranzisti, hanno contribuito a sgretolarli. L’esatto contrario fanno i riformisti radicali. Destra, sinistra, centro (direi soprattutto la destra degli schieramenti in cui si frammenta l’élite intellettuale) si scontrano su come piegare a proprio vantaggio la voce dell’illustre teologo assurto ai massimi vertici del governo della Chiesa di Roma. Forse è questo il destino inevitabile degli innovatori religiosi, che riescono a sporgersi al di là dagli schemi del pensiero già stabilito, e perciò disorientano, sfuggendo a una presa totalmente assimilatrice. Per contenere il rischio, l’unico rimedio è mettersi umilmente in ascolto di tutte le implicazioni racchiuse nel messaggio che ci viene consegnato, comprese le più ostiche o inaspettate: occorre disporsi a seguire la traccia oggettiva della parola offerta, invece di lasciarsi guidare dalla forza condizionante dell’autorispecchiamento.

Se si adotta questa linea di approccio, si può arrivare a sostenere che il nucleo forse più dirompente degli ultimi scritti riuniti nella raccolta pubblicata postuma, subito dopo la scomparsa di Benedetto XVI, sia la risoluta difesa della dimensione razionale presupposta dalla scelta cristiana: la fede non è una pura opzione unilaterale, ma contiene in sé (ed è giusto che continui a rivendicare) una pretesa di verità. Il nesso tra fede e ragione ‒ potremmo anche dire tra cuore e riconoscimento del vero che scaturisce dalla coscienza, interpellata dai segni della realtà che le si fa incontro ‒ è visto nei capitoli di esordio di Che cos’è il cristianesimo in una prospettiva rigorosamente storica: è dalla lezione di come il cristianesimo si è posto nel mondo, fin dalla sua prima diffusione nel contesto mediterraneo, che Benedetto XVI continua a ricavare la conferma che a essere chiamato in causa è l’accesso alla struttura ultima di ciò che è l’essere di Dio, al senso dell’esistere della creatura di fronte a lui, e quindi l’accesso alla risposta più compiuta che possa soddisfare il bisogno insito nel destino dell’uomo vivente. Ripetutamente Benedetto XVI sottolinea che l’annuncio cristiano delle origini non si è posto in continuità con il discorso delle religioni preesistenti, ma come la sua contestazione definitiva. Si partiva da una scelta di rottura, in forza della quale i testimoni della nuova fede che universalizzava il monoteismo giudaico dell’Antica Alleanza, spalancandolo alla totalità dei gentili, si proponevano di smascherare errori e camuffamenti dei culti idolatrici del politeismo antico, incardinato nelle istituzioni del potere mondano, così come l’insufficienza della legge mosaica e i limiti insuperabili delle filosofie autocostruite dall’uomo alla ricerca del volto segreto dell’Assoluto. Non a caso, scrive papa Benedetto, “per noi cristiani Gesù Cristo è il Logos di Dio, la luce che ci aiuta a distinguere tra la natura della religione [si potrebbe chiosare: della vera religione] e la sua distorsione” (p. 13). La presa di distanza si configurò, insiste l’autore, come un oltrepassamento “estremamente critico” (p. 12). A seguito dell’incarnazione, “l’unico Dio entra nella storia delle religioni e depone gli dei. […] Il cristianesimo venne percepito come liberazione dalla paura nella quale la potenza degli dei aveva imbrigliato gli uomini. In fondo, il possente mondo degli dei crollò perché entrò in scena l’unico Dio e pose termine alla loro potenza” (p. 18). L’“intera contesa della storia delle religioni” termina con “la vittoria dell’unico vero Dio sugli dei che non sono Dio” (p. 19).

Ma cosa rese possibile l’esito rivoluzionario di questo disincantamento emancipatore dei fondamenti estremi dell’esistere? Papa Benedetto su questo non nutre il minimo dubbio. Anche qui smentendo un sentire largamente diffuso tra gli stessi ammiratori che lo seguono più da vicino, la sua ricostruzione storica invita a tenere fermo che il fattore scatenante non vada cercato all’interno della sola forza trasformatrice della nuova religione cristiana, ma prima di tutto nell’alleanza che questa sentì la necessità di stabilire, nella dinamica del suo stesso costituirsi, con quanto di meglio si poteva scovare nelle risorse, pure in sé inadeguate e parziali, della sapienza filosofica elaborata dalla civiltà antica. Da questo patrimonio furono estratte le parole chiave della fede neotestamentaria, il suo linguaggio espressivo, le categorie fondamentali della dottrina sviluppata nel travaglio dei primi secoli, persino le armi della polemica contro l’illusorietà menzognera delle visioni tradizionali del mondo contro cui il cristianesimo dovette lottare per farsi spazio. Il contatto tra il monoteismo giudaico che attendeva di essere portato a compimento e la ragione fecondata dalla fioritura del pensiero greco nel contesto antico e nella grande koiné dell’ellenismo fu il vero “evento rivoluzionario” che capovolse il senso della storia universale centrata sui rapporti tra l’uomo e l’alterità non dominabile della pienezza del divino. Per questo, prosegue papa Benedetto, “la fede cristiana poté presentarsi nella storia come la religio vera. “La pretesa di universalità del cristianesimo si basa sull’apertura della religione alla filosofia. È così che si spiega perché, nella missione sviluppatasi nell’antichità cristiana, il cristianesimo non si concepì come una religione, ma in primo luogo come prosecuzione del pensiero filosofico, vale a dire della ricerca della verità da parte dell’uomo. […] In ultima analisi il successo di questa missione si basa proprio su tale incontro. […] Questo purtroppo, nell’epoca moderna, lo si è sempre più dimenticato. La religione cristiana viene ora considerata come prosecuzione delle religioni del mondo e ritenuta essa stessa come una religione fra o sopra le altre” (tutte le ultime citazioni da p. 34-35).

Come si vede, si tratta di affermazioni molto esplicite ed estremamente impegnative, che vanno in un senso ben diverso da quanto auspicato dai riformatori che, per ricondurre alla sua fisionomia autentica un cristianesimo oggi avvertito in crisi, auspicano la sua riduzione a un non ben definito ‘nucleo essenziale’, in buona sostanza spogliato, o comunque alleggerito di contenuti razionali in senso forte, passando attraverso quella che in anni recenti veniva etichettata come la “deellenizzazione del cristianesimo”. La posizione ribadita in questi ultimi scritti di Benedetto XVI è con ogni evidenza ben diversa. Qui si parte dalla netta convinzione che “la questione della verità” vada identificata con “quella che in origine mosse i cristiani più di tutto il resto”, e che ancora oggi non può essere “messa tra parentesi”: la “rinuncia alla verità […] è letale per la fede”. “La fede perde il suo carattere vincolante e la sua serietà se tutto si riduce a simboli in fondo intercambiabili, capaci di rimandare solo da lontano all’inaccessibile mistero del divino” (p. 11). E ancora: per contrastare il rischio della degenerazione nell’intolleranza (la violenza dei totalitarismi religiosi lo conferma rischio reale anche nel presente dei nostri giorni) non si deve recedere dal principio che “il cristianesimo comprende sé stesso essenzialmente come verità e su questo fonda la sua pretesa di universalità”(p. 35; le sottolineature sono mie).

La radicalità dell’appello al sostegno della ragione ‒ una ragione ovviamente dilatata, aperta alla totalità di un vero che si svela attraversando i diaframmi che lo tenevano celato e solo oscuramente decifrabile a fatica ‒ è senza mezzi termini spiazzante, tutt’altro che uno stereotipo scontato. Passano in secondo piano le dinamiche persuasive del bello e del buono, per far di nuovo emergere il primato che chiede di presidiare lo spazio tradizionalmente riservato (o che è da restituire) al riconoscimento di ciò che è oggettivo e si impone all’evidenza per la sua trasparenza rivelatrice: si potrebbe parlare di una risoluta riproposta del primato dell’ontologia rispetto alla dimensione dell’etica e così pure rispetto all’esperienza del fascino ‘estetico’, della pura attrattiva di un gusto percepito esistenzialmente, o forse sarebbe meglio dire sentimentalmente.

“Tutto chiede salvezza”. Dal romanzo di Mencarelli alla serie di Netflix

Dall’alto,

dalla punta estrema dell’universo,

passando per il cranio,

e giù,

fino ai talloni,

alla velocità della luce,

e oltre,

attraverso ogni atomo di materia.

Tutto mi chiede salvezza.

Per i vivi e i morti,

salvezza.

Salvezza per Mario, Gianluca, Giorgio, Alessandro e Madonnina.

Per i pazzi, di tutti i tempi,

ingoiati dai manicomi della storia.

Sono le parole della straziante invocazione che Daniele osa lanciare, premuto dall’affanno che gli toglie il respiro, al termine di un funerale abbattutosi come disgrazia imprevista sulla sua vita inquieta: quello per il compagno di stanza precipitato dalla finestra del reparto psichiatrico in cui insieme hanno trascorso una settimana. Lui colpito dall’ingiunzione di un Trattamento Sanitario Obbligatorio, inflitto dopo l’esplosione di aggressività di cui si era reso protagonista tra le pareti di casa, culmine dell’oscuro malessere in cui si trascinava da tempo, tra cadute depressive e dipendenze abbracciate come illusoria via di fuga, capovoltesi però in una morsa diventata sempre più soffocante; la vittima dell’incidente (o del suicidio?) ricoverata, invece, per il suo stato di ossessione maniacale che le impediva il ritorno a una vita normale.

La scena del funerale domina l’ultima puntata della serie televisiva Tutto chiede salvezza, libera rielaborazione del fortunato romanzo di Daniele Mencarelli del 2020, che porta il medesimo titolo. La serie è prodotta da Netflix, ma la scena del funerale si può vedere anche su internet.

Le secche parole balbettate da Daniele, che si possono immaginare ritmate come versi spezzati (sono però disposte in forma di prosa nella pagina di chiusura del romanzo scritto originariamente dall’autore), danno voce accorata a un grido sofferto. Tutta la vicenda dei sette giorni trascorsi nella struttura ospedaliera, sia pure con qualche concessione al gusto drammatico tinto anche di rosa per aumentare sullo schermo la forza di richiamo del racconto, è attraversata dall’implorazione di una spietata domanda. Uomini fragili, esposti nella più nuda essenza interiore all’urto delle circostanze, poco allenati a rivestirsi di solide armature protettive, ci riportano al nucleo più radicale del nostro esistere nel mondo. Emerge la dismisura di una sproporzione che sembra a volte incolmabile: nella tensione di una mancanza che ferisce nervi scoperti, la vertigine di un vuoto in cui si può rischiare di perdersi, che nessuna scelta ragionevole, o il ripiego in alcuna finzione decorosa, sembrano in grado di riempire fino in fondo. L’uomo è qui ributtato nel suo stato di mendicante: è un bisogno che attende di incontrare qualcosa che lo inglobi demolendone le punte dolorose, una sete che non può saziarsi da sé, e per questo ‒ anche senza esserne fino in fondo consapevole, senza dare un nome preciso alla meta ultima della sua attesa ‒ aspira con tutta sé stessa al dono di una salvezza. Ma una salvezza non artificiale, costruita da menti inaffidabili e mani incapaci di autentica presa: una salvezza dall’alto, dall’infinitamente oltre, dall’inesauribile di cui non possiamo essere padroni, che si rovesci su di noi inaspettata, in modi non programmati, magari imprevedibili e alternativi alla logica ordinaria di un progetto di vita (o di una vita spoglia del benché minimo progetto), e perciò una salvezza non in partenza corrotta, grondante di gratuità, piena del senso dell’alterità.

Quando questo grido affiora, stridendo, dagli anfratti più nascosti del cuore, risalendo dall’abisso più profondo della carne dell’esistenza, sana o malandata che sia, tutto intorno si fa silenzio: come nella chiesa del funerale per l’amico, alterato nell’instabile psiche, che ha cessato prematuramente (?) di vivere. L’implorazione del mendicante, spogliato di tutto, è contagiosa: la denuncia spudorata del limite, netta e senza veli, affratella. Ci si sente attirati nell’abbraccio di una compassione che è prima di tutto un condividere insieme, accettandosi nel respiro della misericordia. Sgorgano liberatorie le lacrime del sentirsi punti sul vivo, come succede agli attori di una fiction che è tutt’altro che una finzione evasiva: compagni del cammino di tutti i fratelli uomini che sono in ricerca, che sbagliano e non trovano, si smarriscono e dilapidano. Spartire con loro i doni a nostra volta ricevuti, qualcosa dei tesori verso cui i fatti della vita possono averci precariamente instradato, è la prima forma di una fraternità che accetti la sfida di rendersi sul serio aperta e disponibile, generosa e cordiale fino alla tenerezza dell’amicizia che sa accogliere e perdona.

A proposito di Mauro Giuseppe Lepori: Si vive solo per morire?

Per accostarsi all’opera dell’attuale abate generale dei cistercensi, padre Mauro Giuseppe Lepori, una via privilegiata può essere l’agile volume che raccoglie le lezioni da lui presentate nel corso dei Meeting di Rimini dal 2003 allo scorso 2015, insieme a due conferenze del 2008 e del 2013. La pubblicazione aveva visto la luce per i tipi di Cantagalli nel 2016 con un titolo a prima vista destabilizzante, o forse in realtà, potremmo meglio dire, sanamente provocatorio (Si vive solo per morire?). Lo scopo era anche quello di inaugurare una nuova collana di “Classici”, cioè di testi concepiti come riferimenti sostanziosi per confrontarsi con le domande fondamentali dell’esistenza: una sfida sempre aperta, dove contano non solo la radicalità degli interrogativi, ma anche la ricchezza dei tentativi di risposta che i grandi autori di un passato lontano così come i maestri del nostro presente possono offrire in termini non tanto di proposta intellettuale, quanto piuttosto, in primo luogo, di testimonianza vissuta (al libro di Lepori hanno fatto seguito Péguy, Paolo VI, Clemente Rebora). “A caccia di Dio” era l’insegna sotto cui si disponeva l’iniziativa editoriale. C’è però da dire che la formula non intendeva rinviare a una esplorazione confinata nel territorio di una riserva per cultori superaddestrati del “religioso”. Dio qui era inteso come il vertice di ogni anelito dell’uomo onesto con sé stesso, che non vuole abdicare alla grandezza della sua statura e insegue quell’Oltre che sta al di là di ogni manipolazione addomesticata delle sue istanze di bene, di verità e di bellezza.
Lepori, nel volume che vogliamo commentare, si serve delle metafore letterarie, come è abitualmente nel suo stile, per comunicare la suggestione di ciò che più gli preme. In questo caso prende le mosse da Victor Hugo. Nei Miserabili, il fiume di perdono che si riversa sull’ex forzato Jean Valjean dopo l’incontro travolgente con il vescovo che lo riscatta dall’accusa di un furto spregevole sembra subito bloccato dal nuovo cedimento all’impulso accaparratore. Ne fanno le spese i pochi soldi raggranellati da un bambino mendicante, vergognosamente depredato da chi si stava incamminando con la borsa piena di argenteria verso il suo straordinario approdo di convertito al primato della generosità eroica. Il gesto rapace della rapina che vuole strappare un guadagno per il proprio esclusivo possesso, riflettendo nella lunga corsa del tempo la voracità dei progenitori tentati dal Serpente nel Paradiso delle delizie, è lo stesso di don Rodrigo che, alla fine dei Promessi sposi, stringe le mani ad artiglio sul cuore devastato dal respiro affannoso dell’agonia, in contrapposizione a quelle di padre Cristoforo che restano aperte fino all’ultimo per donare, per benedire e spezzare il pane eucaristico.

La dialettica tra la bramosia della conquista da afferrare con le dita adunche e la “carità oblativa” del dono restituito, a piene mani, da chi a sua volta è stato l’oggetto di un amore che lo fa rinascere a nuova vita percorre molte delle meditazioni di p. Lepori. Il gioco di queste ambivalenze rimanda a uno sguardo spregiudicatamente realistico gettato sul mistero di tutto ciò che esiste. Al principio sorgivo dell’essere, dunque anche di quell’essere minuscolo e pieno di bisogno che è l’io di ciascuno di noi, non si può immaginare altro che il dinamismo della pura gratuità che crea, facendo passare dal non essere all’essere limitato e dipendente della natura creata. Noi, il mondo e la storia siamo l’espansione mai esaurita di questo ardore che trabocca continuamente fuori di sé, generando l’altro da stringere in un abbraccio di comunione. In cima alla scala delle creature, nel codice genetico dell’identità umana resta impressa l’orma indelebile di una “somiglianza” con il divino che si intreccia con il dono privilegiato della libertà: perché ciò che è plurale non si può fondere nell’unità se non volendolo liberamente. Solo che la libertà l’uomo l’ha esercitata degradandola a volontà di autonomia gelosa, nella lacerazione della disobbedienza che ha rotto il legame originario con il Principio. È andata in frantumi l’alleanza fiduciosa con il Tutto divorata dal tarlo del dubbio nei confronti della verità trasparente della realtà così come si pone.
Ma la gratuità totale, infinita, libera dalle catene dei doveri di riconoscenza e senza alcun obbligo di ritorno, la carità sfrenata del Dio-Trinità che fa sorgere le cose dal niente e accompagna la vita dell’uomo in ogni sussulto del suo respiro non poteva rinunciare a colmare lo spazio di amore lasciato aperto per ogni uomo vivente: anche nella tragedia scandalosa del rifiuto che chiude il dialogo e si piega ad adorare la divinità irrisoria di idoli incapaci di mantenersi all’altezza delle loro promesse. Che la natura profonda del Divino sia la misericordia si vede nella rivelazione che la manifesta pienamente, miracolosamente, attraverso l’incarnazione del Figlio: Lui che accetta di esporsi alla cattiveria rapinatrice dell’uomo fino alla sua espropriazione totale, fino alla passione e alla morte di croce.
La croce di Cristo è l’altro grande centro della riflessione dell’abate cistercense sul dramma umano in cui siamo coinvolti. Cristo immolato sul patibolo del Golgota è il massimo segno dell’amore che si dona all’uomo, risanandolo dal suo male ultimo: il divorzio dalla radice di cui è fatto. Le piaghe, il sangue che scorre, in primo luogo il cuore trafitto dalla lancia del soldato romano sono l’eccesso clamoroso in cui si riassume (così hanno sperimentato i mistici di ogni epoca) lo slancio di una carità che non poteva lasciarsi contraddire dallo sfregio della contestazione aggressiva dell’uomo.

Il costato ferito rimane aperto per sempre, e dal varco creato dalla punta dell’arma dopo che si decise di risparmiare l’integrità delle ossa del corpo di Cristo, senza spezzarle, fuoriesce quel fiume di sangue misto ad acqua in cui la tradizione cristiana, rilanciata in modo potente nel cuore delle tragedie del Novecento, ha visto la sorgente zampillante della Divina Misericordia, che lava e rigenera con la forza della vita nuova del Risorto all’opera nel mondo.
Aderire alla presenza viva di Cristo vuol dire accogliere l’invito persuasivo del suo “Seguimi!”. Significa prenderlo sul serio come il paradigma in cui ci immedesima la risposta del nostro amore resuscitato, sulla strada del ritorno alla comunione con il Padre. Stare nella compagnia di Gesù porta così inevitabilmente a immettersi nel solco della sua stessa missione: far risplendere la luce e la forza attrattiva della gratuità di Dio nella testimonianza di uno sguardo nuovo, pieno di amore, di positività e di capacità di dono, sulla totalità della realtà, in ogni frammento delle fluttuanti circostanze della vita.
 
(Una prima versione di questo commento era apparsa in “Il Sussidiario.net”, 26 agosto 2016: http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2016/8/26/LETTURE-Mauro-Giuseppe-Lepori-si-vive-solo-per-morire-/720485/)

La Pira, politico cristiano

Ripubblichiamo gli appunti dall’incontro dell’11 marzo 2022, apparso sul sito della Parrocchia di Santa Maria Assunta di Canegrate.

“Io non sono un ‘sindaco’, come non sono stato un ‘deputato’ o un ‘sottosegretario’: non ho mai voluto essere né sindaco, né deputato, né sottosegretario, né ministro […]. E la ragione di tutto questo è così chiara: la mia vocazione è una sola, strutturale, direi: pur con tutte le deficienze e le indegnità che si vuole, io sono, per la grazia del Signore, un testimone dell’Evangelo […]. La mia vocazione, la sola, è tutta qui!”.

Così ha lasciato scritto di sé Giorgio La Pira. In realtà possiamo dire, ancora meglio, che lui è stato, contemporaneamente, tutto quello di cui si parla nel brano riportato, in piena unità, senza separazioni né esclusioni. È stato il testimone di una fede viva, totalizzante, incarnata nella realtà concreta. Una fede non a lato, sovrapposta al flusso dell’esistenza, ma fatta coincidere con i doveri del suo stato di vita, con il suo impegno professionale, di docente universitario e di servitore del bene comune; una fede messa in rapporto con l’attenzione ai problemi di tutti i fratelli uomini, vicini e lontani, animata dallo slancio appassionato per venire incontro ai disagi, alle fatiche e alle contraddizioni proprie della società di oggi, con il desiderio creativo di fornire risposte adeguate, veramente efficaci, arrivando fino al livello dell’elaborazione delle regole della convivenza sociale, fino alla produzione delle leggi, partecipando al governo della società, con l’esercizio di una responsabilità politica e amministrativa di primissimo piano. In nome di una fede così moderna e impegnata, si è calato dentro la realtà del mondo per cambiarlo, per smuoverlo dal suo interno, senza nessun complesso di inferiorità, orgoglioso della sua identità di credente. Era capace di agire da cristiano sia facendo il professore, sia il sindaco o il deputato. Anzi, faceva tutte queste cose in un certo modo proprio perché cristiano, facendole derivare dal centro della sua persona, del suo cuore e della sua intelligenza.

La Pira era nato a Pozzallo, nei dintorni di Siracusa, nel 1904. Crebbe in Sicilia e qui iniziò i suoi studi. Prese il diploma di ragioneria nel 1921 e l’anno seguente anche il diploma di maturità classica, a Palermo, lasciandosi convincere a concentrare poi i suoi interessi sulla giurisprudenza.
Da adolescente e giovane, più che dalla proposta cristiana fu attratto dai letterati alla moda e dalle correnti culturali allora di avanguardia. Subì il fascino delle novità che sembravano più fresche e promettenti, con tutte le aperture al futuro che racchiudevano. Ma intorno ai vent’anni, arrivò per lui una svolta decisiva: rimase colpito dall’incontro con persone che incarnavano un modo autentico di vivere il cristianesimo, non un cristianesimo tradizionalista, di facciata, ma qualcosa che rivoluzionava l’esistenza (si parla di una comunità di suore, di un monsignore di qualità particolare…), e da questi incontri si trovò spinto in modo fulmineo verso la riscoperta della fede come scelta matura, consapevole. Fu l’inizio di un percorso totalmente nuovo: una vera conversione, che rimase impressa per sempre nella sua memoria, collegandosi alla data del 1924. In una famosa lettera di diversi anni più tardi, La Pira ricorda quei momenti cruciali come l’aprirsi di “un’alba nuova della vita”:

“Io non dimenticherò mai quella Pasqua 1924, in cui ricevei Gesù eucaristico: risentii nelle vene circolare una innocenza così piena, da non potere trattenere il canto e la felicità smisurata”.

La riscoperta della fede cattolica si tradusse in un desiderio di consacrazione totale della persona a Dio. Divenne terziario domenicano già nel 1925, mettendosi alla scuola dell’ideale di vita che proponeva l’ordine dei frati predicatori. Più tardi si fece anche terziario francescano, dopo essere entrato in rapporto con Agostino Gemelli, il rettore che si era messo alla guida dell’Università Cattolica, da poco avviata. Ma La Pira prese queste decisioni continuando a vivere sempre come laico nel mondo, senza pensare a una scelta di tipo religioso.

Nel 1926 si trasferì a Firenze per condurre a termine gli studi universitari nel campo del diritto, e subito si inserì nella strada della carriera accademica. Nel 1927 divenne professore supplente di diritto romano, nel 1933 ottenne la cattedra. A fianco degli studi e dell’insegnamento, molte delle sue energie erano assorbite dall’impegno per i poveri e da un’intensa partecipazione alle battaglie culturali. Sentiva il bisogno di incidere sull’opinione pubblica, in particolare attraverso la stampa, anche per contribuire allo sviluppo di una linea critica nei confronti del regime fascista, che si andava consolidando nel Paese. Dopo la liberazione e la fine della guerra l’attività in campo politico occupò uno spazio sempre più rilevante, perché La Pira aveva compreso che la politica era ormai diventata una realtà fondamentale con la quale era indispensabile fare i conti se si voleva proporre dei valori credibili nella società del suo tempo. La politica a cui lui pensava era una missione nobile e alta:

“Non si dica quella solita frase poco seria: la politica è una cosa ‘brutta’! No: l’impegno politico – cioè l’impegno diretto alla costruzione cristianamente ispirata della società in tutti i suoi ordinamenti a cominciare dall’economico ‒ è un impegno di umanità e di santità: è un impegno che deve poter convogliare verso di sé gli sforzi di una vita tutta intessuta di preghiera, di meditazione, di prudenza, di fortezza, di giustizia e di carità.”

G. La Pira, La nostra vocazione sociale

Nel 1946 La Pira venne eletto per entrare a far parte dell’Assemblea Costituente e si legò in particolare al gruppo di politici cattolici guidato da Giuseppe Dossetti, in cui militavano altre personalità di punta come Amintore Fanfani e il milanese Giuseppe Lazzati, destinati a segnalarsi nei decenni seguenti per il loro ruolo di primo piano nella società e nella Chiesa italiana. Il loro scopo era inscrivere nella legge fondamentale del nuovo stato repubblicano i princìpi di una visione dell’uomo coerente con il patrimonio della tradizione cristiana, ma allo stesso tempo capace di promuovere la trasformazione del mondo in un senso più giusto e più fraterno, a partire dalla tutela dei diritti inviolabili della persona, dalla centralità del suo bene e da uno spirito di solidarietà spinto fino a favorire il miglioramento delle basi materiali della vita collettiva.

Nelle prime elezioni politiche del 1948 La Pira fu eletto alla Camera dei deputati, venendo poi nominato sottosegretario al Ministero del lavoro e della previdenza sociale nel governo presieduto da De Gasperi, a fianco del ministro che era l’amico Fanfani. Tre anni più tardi, nel 1951, fu eletto per la prima volta sindaco di Firenze, carica in cui fu riconfermato, dopo una breve interruzione, nel 1961 e che detenne fino al 1965.

Sotto la sua guida amministrativa, la città di Firenze divenne il laboratorio di un ardito tentativo per creare una convivenza umana più armoniosa e inclusiva, accogliente per tutti e in particolare per i più deboli e i più fragili. Per portare avanti con serietà questo ideale La Pira prese a cuore il risanamento delle periferie, ampliò la disponibilità delle case popolari, si interessò a fondo del miglioramento dell’edilizia scolastica, della tutela del mondo del lavoro e del diritto di tutti a una occupazione dignitosa, dell’educazione dei giovani, della piena valorizzazione della grande tradizione artistica e culturale della città. Firenze, d’altra parte, non stava fuori dal contesto più generale della vita dell’Europa e dell’intero pianeta. Il bene generale e la prosperità della propria comunità ristretta erano interconnessi. La Pira guardava sempre in grande e sentì fin dall’inizio del suo mandato la necessità di adoperarsi infaticabilmente per la pace e la sicurezza dei popoli, fronteggiando i rischi di conflitto e i momenti di crisi che videro contrapporsi, sullo sfondo della Guerra Fredda, i due blocchi dei vincitori della Seconda guerra mondiale: il blocco occidentale filoamericano e quello comunista egemonizzato dall’Unione Sovietica.

Nel 1952 organizzò il Primo Convegno Internazionale per la Pace e la Civiltà Cristiana (per lui, i due aspetti non potevano essere separati). Con i suoi collaboratori si attivò in ogni modo per favorire i contatti e il dialogo tra gli esponenti politici di tutti i paesi, al di là della diversità delle loro posizioni ideologiche e dei loro contrasti di interesse. Dedicò speciali premure ai sindaci. Si interessò a fondo per la questione della stabilità nel mondo mediterraneo creando occasioni di incontro per arabi e israeliani, inseguendo l’obiettivo della pace in Terrasanta, cercando di risolvere l’arduo problema palestinese.

Nel 1959 fu invitato a Mosca e poté parlare davanti al Soviet Supremo, la roccaforte del comunismo mondiale, a favore della distensione e del disarmo, contro la corsa agli armamenti nucleari con cui le grandi potenze si bilanciavano a vicenda sotto la minaccia di una sfida mortale. Si mobilitò anche contro la guerra del Vietnam, recandosi di persona ad Hanoi dopo aver visitato Varsavia, Mosca e Pechino, nel tentativo di promuovere un negoziato capace di porre fine a uno scontro che mieteva vittime senza sosta e creava distruzioni a causa delle rivalità per la conquista del primato a livello mondiale.

L’impegno instancabile come sindaco non interruppe del tutto la carriera politica a livello nazionale: La Pira fu eletto di nuovo deputato nelle elezioni del 1958 e una terza e ultima volta nel 1976, sempre nelle file del partito della Democrazia Cristiana. Già malato da qualche tempo, morì a causa di un’improvvisa emorragia cerebrale il 5 novembre del 1977.

I frutti della sua operosa esistenza continuarono a maturare dopo la sua scomparsa. Se quando era in vita tanti lo avevano criticato per la radicalità delle sue posizioni e il suo idealismo cristiano, ancora più tenace si impose il convincimento di aver perso colui che appariva ormai come un “sindaco santo”. Nel 1986, sotto papa Giovanni Paolo II, si diede avvio alla causa di beatificazione e nel 2018 papa Francesco ha dichiarato La Pira “venerabile”, riconoscendo l’eroicità delle sue virtù.

Siamo arrivati al momento in cui potrà diventare beato, una volta che sarà stato accertato un miracolo dovuto alla sua intercessione.

Pensieri conclusivi

La Pira è stato certamente un grande sognatore. Un uomo di lungimiranti utopie, ma di utopie non astratte, perché spingevano a operare, a immergersi nella realtà dei problemi.
Il suo è stato un attivismo che ha un qualcosa di prodigioso, attraversato dalla volontà di costruire, di guardare avanti, anche a costo di sfidare le incomprensioni, senza la paura di andare controcorrente, con un enorme coraggio e una grande, generosissima fantasia. Nello stesso tempo, La Pira era un uomo aggrappato al tesoro della tradizione, attaccato alle radici, divorato dal bisogno di abbeverarsi sempre alle fonti più vitali, più fresche e autentiche, della vita cristiana: la Bibbia, san Tommaso, che è stato il vertice della cultura cristiana dei secoli scorsi (La Pira ne fu un lettore accanito e studioso attento delle sue opere: ci resta la copia della Summa Theologica tutta postillata a mano da La Pira con tantissime note e osservazioni), e insieme ai libri e ai testi della parola scritta più autorevole, le altre forze trainanti erano per lui il patrimonio della liturgia, il gusto della preghiera più disinteressata e gratuita, l’amore per il Mistero che si rende presente.
Moltissimi che lo hanno conosciuto hanno descritto La Pira come un “contemplativo nel mondo”, un “mistico dell’azione”. Il colloquio con il divino raggiungeva in lui il livello della visione profetica e si univa a una povertà radicale (anomalia eccezionale per un uomo di potere come di fatto è stato), all’accettazione del sacrificio, all’offerta continua di sé, senza risparmio. Si può dire che è stato un uomo sempre orientato alla gioia e alla speranza, che viveva immerso in una letizia fiduciosa, dominata dal registro del positivo, nonostante il cumulo delle difficoltà incontrate, nonostante le tragedie e anche gli insuccessi umani con cui dovette misurarsi.
Basta guardare alle fotografie e ai filmati che ce ne ricordano l’immagine per convincersene: lo vediamo sempre con il volto sereno, spesso sorridente, capace di ispirare naturalmente simpatia, di attrarre per l’intensità di un fascino carismatico.
La Pira ha fatto riemergere il lato più bello, più luminoso e solare del cristianesimo: il cristianesimo come compimento dell’umano, come redenzione e salvezza per l’uomo in carne e ossa, come conquista di un bene destinato a spalancarsi in senso universale, per tutti, dentro i segni della storia.

Il nucleo del suo ideale sta proprio qui: rimodellare la convivenza umana, fra i singoli, nella società, tra i popoli, inserendo nella realtà del mondo, dilatando nello spazio del tempo umano un anticipo, un piccolo germe dell’aldilà divino. Qualcosa che deve per forza avere a che fare con la circolazione della carità, con una fraternità veramente vissuta, per avvicinarsi almeno un po’ al grande miracolo, impossibile da realizzare per le sole risorse umane, del diventare “una cosa sola”.

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