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Mappe #14

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La Zona estrema di Francesco Filia

«La poesia si compie nell’attesa alla frontiera» scriveva il filosofo e teologo Ladislaus Boros nel suo Mysterium mortis. Al limite, in una zona estrema di confine si trova anche la poesia di Francesco Filia che con Nella fine ci conduce in un territorio solcato da cieli incendiati ed esplosioni, da inverni minacciosi e paesaggi assiderati in cui «l’annuncio mite di un nuovo inizio / qualcosa ancora preme per nascere / da un antico silenzio». Come nelle sequenze cinematografiche di Stalker del russo Tarkovskij, si attraversa la “Zona” di questo libro lucido e tagliente con la sensazione di un pericolo imminente, in un estremo silenzio in cui il poeta registra con perizia chirurgica i minimi dettagli, i gesti essenziali: i vetri che vibrano     «in controluce», le «lettere sulle pareti delle aule» che «tacciono e sbiadiscono», il gesso che  «continua a stridere sull’ardesia», la «superficie scabra di un tronco tra le dune» e ancora  «Ogni gesto, / il rigare minimo di un polpastrello nella polvere». Consapevole che ogni verso, come dichiarato nella nota in appendice al libro «deve avere in sé il proprio inizio e la propria fine» la scrittura di Filia si carica di un’essenzialità visionaria che a tratti può forse ricordare un certo De Angelis. Ecco qui la poesia di Filia, la sua “biografia sommaria”: questo saper rimanere immersi nel grande enigma della vita senza facili ideologie o illusioni, tra la «lastra del cielo» che pare incombere su di noi e un «sibilo» che nonostante tutto «attraversa le nostre vite e riapre / una ferita antica e sconosciuta»   

(Massimiliano Mandorlo)

FRANCESCO FILIA, Nella fine (2019-2022), Pasturana (AL), 2023, pp. 60, € 15.

Mappe #13

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Il soffio di Dio, il sorriso del poeta: Il cielo pende dai lampioni di Enzo Cannizzo

Enzo Cannizzo è un poeta che dà del tu a Dio. Anzi, la familiarità con il creatore è tale che il poeta può permettersi la minuscola («dio») con cui si cerca, con movenze ironiche e sornioni, un vecchio amico.  Volendo, si potrebbe anche parlare di un “affiatamento” cameratesco tra i due, nel nome del fiato/ruah della creazione nei confronti del quale il Cannizzo de Il cielo pende dai lampioni (Algra, 2020) sembra nutrire un’ossessione che non vorrebbe essere solo poetica; non si contano, a questo proposito, le tante occorrenze di soffio («un soffio precede la parola», p. 27; «il soffio è frana sopita», p. 58; «il soffio è argilla / frana setaccio crepa», p. 67), e ancora di fiato e di respiro, nella raccolta in questione. Qui il poeta non fa a gara con la divinità – l’esito sarebbe certamente scontato e sproporzionato – ma semmai cerca di cavarla fuori dalla solitudine impenetrabile in cui da sempre è stata relegata dall’umano. Così il Dio terribile del Testamento ebraico cede il posto a un «vecchio dio lo zoppo / pagliaccio esodato dal circo» (p. 16), ovvero «un dio vagamente vanesio» (p. 32), non certo per una deminutio blasfema dell’attributo divino, quanto per l’urgenza – religiosissima – di una “somiglianza” ancora più prossima all’umano. E cosa c’è di più specifico del riso per mezzo del quale la nostra specie, a quanto ci dicono, si distingue da tutte le altre? Il riso di cui parliamo, naturalmente, sa essere anche amaro, come ci insegna quel Qohèlet «figlio di Davide» che vede la ruah declinarsi in havèl, spreco, fumo, sostanza dello «schianto dolcissimo / di un altro mattino» (p. 14). E forse Il cielo pende dai lampioni vuole essere, prima di tutto, una forma di preghiera che dietro la maschera del cinismo clownesco avvalora la nostra dipendenza creaturale dal logos («nei nomi / passiamo // nei nomi / restiamo», p. 82); una preghiera invero disperata («il tuo respiro / non ci tiene da tempo / per mano», p. 78) che punta dritto a quel sorriso di Dio/dio intravisto solo dai mistici e dai poeti disperati che vedono le parole incendiarsi nella loro bocca.

(Pietro Russo)

ENZO CANNIZZO, Il cielo pende dai lampioni, prefazione di Maria Attanasio, postfazione di Giovanni Miraglia, Viagrande (Catania), Algra editore, 2020, pp. 136, € 12 .

Mappe #12

Una vita da ospite: Erri De Luca e la poesia dal cuore

Che cosa c’è all’origine della scrittura poetica? L’ospite incallito, silloge del 2008 di Erri De Luca, inizia con una premessa dell’autore che toglie il punto interrogativo: la poesia nasce quando la divinità smette di dire. Stando così le cose, la poesia sarebbe 1) ascolto del silenzio, o piuttosto dell’eco della voce divina, e quindi 2) un’espressione “a immagine e somiglianza” della parola di Dio. Si potrebbe quindi concludere che un testo poetico ben riuscito ha la pretesa di riaprire il canone delle Scritture, di ri-perimetrare il volume del sacro.

La poesia de L’ospite incallito – ma si può estendere il discorso in toto alla scrittura in versi di De Luca – rifugge dai modi tradizionali della lirica per imparentarsi con le forme più irregolari di una poesia-racconto (modello supremo: Pavese) che non rinnega la sapienza del cuore di matrice biblica. Il verso lungo è così una pista di decollo-atterraggio per parole, frasi, sentenze, postille che pescano tanto dalle vicende private del poeta (si vedano la prima e l’ultima sezione del libro) quanto dalla storia collettiva, sia essa del secolo scorso oppure veterotestamentaria. È una poesia, quella di EDL, che molto spesso vuole scolpirsi come manifesto (politico, religioso, identitario) di un Io che parla da confini ampi, complessi, multipli. Ma non per questo poeta urla la propria verità; semmai si limita a qualche Consiglio, a fare cioè come il lanciatore di coltelli che non centra il bersaglio ma lo costeggia perché, appunto, «la grazia è di mancarlo» (p. 23).

L’ospite incallito ci dice già dal titolo di un poeta e di un individuo – nella scrittura di EDL le due identità non sono divisibili – che attraversa la storia senza schermi o fraintendimenti, parlando dalla sede del cuore che non conosce limitazioni (infarto a parte), mai ponendosi come padrone degli eventi («Non sei il padrone, ma l’ultimo inquilino», p. 28) o in una posa stanziale («E niente è lì dove si va, destinazione», p. 21) ma sempre sul punto di disfare la tenda e così riprendere, come la divinità “beduina” nel deserto («Non voleva saperne di edifici, la divinità, / era nomade e nomade è restata», p. 33), il cammino, o l’arrampicata.

(Pietro Russo)

Mappe #11

«Mi arrendo all’ineffabile». Il Getsemani di Pizzolitto

Nella Basilica dell’Agonia, sul Monte degli Ulivi, ci si trova davanti alla roccia sulla quale Gesù pregò la notte prima del suo arresto. Davanti alla pietra del Getsemani c’è un momento di silenzio e insieme di «resa / incondizionata», si è riportati a quel «deserto delle / cose» in cui emerge la nuda verità del nostro essere. È un silenzio che si fa insieme domanda e grido, come quello del buon ladrone San Dismas – venerato il 25 marzo nel Martirologio Romano – capace di spalancare gli abissi per entrare nel Regno, come scrive Pizzolitto: «Disma, ora trema e fiorisce l’abisso». Quello di Pizzolitto è un libro di atmosfere rarefatte e sospese, dominato da un senso profondo di mancanza che pervade il paesaggio: «Miseria di sassi e rovine / si posa il deserto di spine / sui volti, la misura / è colma, la via segreta / oggi anche i rami / tengono a stento / l’inverno». Distanze e lontananze abitano questa scrittura che non teme di nominare Dio e le molteplici «geografie» della sua sete, che accoglie continui echi, frammenti e citazioni che vanno dai Salmi al visionario Carnevali o al greco Elitis. Davanti al Getsemani ogni umana consapevolezza dell’impotenza umana di fronte al dolore – o anche del più misero tradimento – è trasformata in resa incondizionata, totale, ma resa che può mutarsi in abbandono e liberarsi in canto: «Mi arrendo all’ineffabile / ancestrale silenzio / in luminoso vuoto. / Io oggi solo in Te / trovo pace, riposo».

(Massimiliano Mandorlo)

LUCA PIZZOLITTO, Getsemani, prefazione di Roberto Deidier, Ancona, Pequod, 2023, pp. 88, € 14.

Mappe #10

«Con gli occhi della prima volta»: il paese nascosto di Luca Nicoletti

C’è un paese nascosto nella poesia del romagnolo Luca Nicoletti, un paese – avverte Pontiggia nella prefazione – «non solo dell’anima, ma una comunità concreta». Colpisce, in questa poesia alla ricerca di luoghi veri e familiari, di una «piccola comunità» nel nostro tempo, lo sguardo estatico che si sofferma con stupore sugli elementi animali e naturali: lucertole, uccelli, il passaggio lento dei gabbiani, i rami e i bianchi petali del pruno, i monti «grandi e protettivi». Oppure la presenza «comprensiva» ed enigmatica al tempo stesso della luna, vista «con gli occhi / della prima volta». Lo sguardo del poeta, che ha in sé gli stessi paesaggi e istanti trattenuti dalle inquadrature fotografiche della madre Rosita Nicoletti – nota fotografa riccionese – sa cantare l’incanto struggente della Riviera anche nel suo lato nascosto e silenzioso, lontano dal chiasso estivo. Così attraversiamo la «Valconca divina, abissale», San Clemente e le «poche case» di Agello, quasi invisibili, le «pietre bianche / del Coriano Ridge War Cemetery» che sembrano disegnare fantastici arabeschi. E ancora la Riviera con gli alberghi ancora chiusi e «ogni luogo abbandonato», Zandonai «viale del tempo», l’esplodere delle gemme sui rami al Parco della Resistenza o, verso il confine, il castello «senza perdono» di Gradara, Bel-Sit a Gabicce Monte con la sua terrazza immersa «in quell’abbraccio di vento». Lontane dalle parole sicure e potenti dei «dittatori nelle vite degli altri», quelle della poesia di Nicoletti sembrano porsi umilmente in discussione e in dialogo, celebrando il continuo accadimento delle cose: «inquadra l’orizzonte, il cielo / decidi quanto / radici e nulla, celeste e confinato / nulla, respiro / che aspetta il nostro sguardo / i germogli, le foglie tenere / l’illusione che ci accende».

(Massimiliano Mandorlo)

LUCA NICOLETTI, Il paese nascosto, prefazione di Giancarlo Pontiggia, Ancona, Pequod, 2019, pp. 101, € 15.

LUCA NICOLETTI, Rappresentazione della luna, Pasturana (AL), Puntoacapo, 2023, pp. 92, € 15.

Mappe #9

Il tempo sospeso di Roberto Gabellini

Un senso di profonda attesa e sospensione attraversa il nuovo libro del riminese Roberto Gabellini, che già aveva indagato il mistero della morte e del dolore con l’originale poema L’ultima marcia del tenente Péguy (Ares 2014): ci sono uomini che «camminano sospesi», ognuno è «in attesa e composto», anche la polvere è «sospesa» così come le parole sono «in sospeso». A questo senso di fragilità continua si affianca la percezione di un tempo che si consuma vertiginosamente, con un lavorio incessante che agisce sulle cose, sugli uomini e sui loro sentimenti: «svelto, un vento di sabbia», il soffio «sulla polvere che sei», «l’ombra ormai ferita» che «ha fretta, si consuma / cola lungo i muri», il «petto sfinito», la «memoria» che è «consumata»/ e il viso insieme» oppure che «sbiadisce dolorosa / tra i mazzetti di plastica sfiorita», un Dio che è  «sfiancato dal tempo» così come la «pietà» che «sfiancata / lenta s’abbandona». In questa esplorazione autobiografia del dolore Gabellini si affida a un’alternanza continua di frammenti di voci (in corsivo nel testo), quasi un coro greco che accompagna con le sue meditazioni l’azione sulla scena o voce interiore del poeta che dialoga con le profondità del proprio io: «Specchio d’amore, dell’unico dolore, che hai provato il buio, a essere solo, essere niente, insegnaci a volere, esatto, il nostro stesso niente». «Venerare ogni cosa», ossia offrire un sentimento di profonda riverenza e sacro riconoscimento anche quando si tratta – come in questo inquieto e lacerato libro di Gabellini – di scendere nelle voragini più nascoste del dolore e della morte per cantare la forza rigeneratrice dell’amore: «la carne stessa senza voce aspetta / qualcuno, ancora, che non abbia paura, / un lampo che scavi lo sguardo, le offra / una carezza, solo, una canzone; / custodisca i sogni antichi, i volti senza nome, / i pochi amori che valga ricordare».

(Massimiliano Mandorlo)

ROBERTO GABELLINI, Era questo l’amore?, postfazione di Giancarlo Pontiggia, Bergamo, Moretti & Vitali, 2023, pp. 80, € 10.

Mappe #8

Il fiato caldo della poesia: Niente di tiepido di Iole Toini

Recita un passo dell’Apocalisse (3, 16): «Poiché sei tiepido, né caldo né freddo, mi appresto a vomitarti dalla bocca». Una vita incosciente del proprio essere ancorata al sangue che fiotta nelle arterie e allo sfondamento della luce nella retina è, allora, un’esistenza votata al rigurgito del niente. «Più terrena di così non sarà mai, lo sa. La strada è quella giusta», scrive Iole Toini a inizio di Niente di tiepido (p. 7), mostrandoci un’apertura, un cretto, una strettoia nella roccia che il corpo-anima del lettore è chiamato a seguire. Con il metro alterno del verso e della prosa Toini ci alita addosso un fiato caldo di sapienza esperienziale («È vero quindi, si può toccare Dio e la sua altitudine», p. 8) che si nutre di una vocazione panica («Se tutto fossi di niente, mi leverei oltre il siero della luce a toccare il molto dei volti, l’ordigno che dà fuoco al canto», p. 19), declinata anche e non meno vigorosamente al mondo delle relazioni umane («Quando amo una persona, la persona entra nelle ossa. Il mio corpo cammina col suo corpo, la mia bocca diventa la sua bocca», p. 43). Niente di tiepido è un libro in stato di grazia, laddove questa grazia è data dalla tensione cristallina di una creaturalità che convive con il disfacimento della materia, con la violenza della putrefazione carnale e, al contempo, con conati inarrestabili di gratitudine e tenerezza verso ciò a cui lo sguardo si rivolge: «Il volto di un uomo affonda la terra. / Il corpo di un bimbo affonda l’uomo. / La terra sprofonda. / Tenerezza, oh, tenerezza» (p. 29). Se è vero che le doglie di quel parto infinito che è la creazione (S. Paolo) non negano la possibilità del non venire alla luce, allora chi si ritrova sotto il cielo ha il compito di non essere tiepido come un aborto di vita, ovvero di far esplodere la gola con un canto all’altezza di ciò che è consegnato all’esistere e poteva non esserlo.

(Pietro Russo)

IOLE TOINI, Niente di tiepido, Locorotondo, Pietre Vive Editore, 2023, pp. 54, € 10.

Mappe #7

Saper tradurre il fuoco. L’Apocalisse nella traduzione di Giancarlo Pontiggia

Saper tradurre il fuoco, far deflagrare in versi quel libro «di fiamme e di orrori» che è l’Apocalisse di Giovanni. Ci è riuscito Giancarlo Pontiggia – finissimo interprete del mondo classico e tra i più autorevoli poeti contemporanei – in questa nuova traduzione poetica per De Piante editore, che si inserisce in un più vasto progetto di versioni bibliche affidate a poeti, narratori e pensatori contemporanei: «E i simulacri delle cavallette erano simili / a cavalli pronti a correre in guerra, e in testa / corone simili a oro, e facce / come facce di uomini, / e capelli / come capelli di donne / e denti / come denti di leoni, / e corazze come corazze di ferro». Pontiggia sa restituire la potenza enigmatica e vertiginosa del pensiero dell’apostolo esule a Patmos, ne fa riemergere l’ardore originario inciso nella grammatica e sintassi scheggiata di quella lingua. Anche un minimo “kai”, nelle sue infinite ripetizioni, è essenziale perché il libro più abissale e incendiario della Bibbia possa tornare a rifulgere, a scintillare ancora sui «devastati emblemi del mondo occidentale».

(Massimiliano Mandorlo)

Apocalisse, nella traduzione di Giancarlo Pontiggia, Milano, De Piante, 2023, pp. 94, € 18.

Mappe #6

Con la semplicità del bambino: il Natale di Rebora

Il tuo Natale, curato magistralmente da Roberto Cicala e Valerio Rossi, raccoglie insieme brani in prosa (lettere, omelie, appunti per i ragazzi del collegio Rosmini) e poesie di Clemente Rebora in un arco di tempo molto ampio: dagli anni dei Frammenti lirici iniziati nel 1913 al 1955, due anni prima della sua morte. Tra i pregi di questo lavoro vi è quello di aver portato alla luce l’importanza per Rebora della memoria del Natale e dell’Epifania.

È indubbio che per Rebora il Natale coincide con la rivelazione di Dio che si fa uomo e ciò è comunicato attraverso diversi scritti. Con la semplicità del bambino o meglio dell’uomo puro egli arriva a comunicare l’essenzialità del suo rapporto intenso con Cristo vivo: «Intollerabil vivere del mondo / a stare bene senza l’Ognibene / Gesù dammi il tuo Natale / di fuoco interno all’umano gelo». E in una poesia che recupera da una antica tradizione popolare, entra in rapporto con la Sacra Famiglia, sottolineando gli aspetti più quotidiani ed immediati: «Maria lavava / Giuseppe stendeva, / Il bimbo piangeva / Dal freddo che aveva, / … Maria col velo / Copriva Gesù».

Il giorno dell’Epifania del 1930 scrive di celebrare il primo anno di vita nuova dopo 45 anni di esistenza, avendo nella memoria il suo itinerario spirituale culminato con la conversione avvenuta nel 1929.

L’Epifania è la manifestazione del mistero del Natale con il concorso dapprima dei pastori e poi dei Re Magi visti da Rebora come figure emblematiche di chi è disposto a cercare e conseguentemente vedere la risposta ad una costante ricerca interiore: «Ecco intanto dall’Oriente / Una stella luminosa! / … Fu veduta in quel confino / Dai Re Magi con stupore; / Disse ognun con lieto cuore: / Nato è certo il Re divino».

In questo atteggiamento di fondo dei Magi il poeta nato, guarda caso, il 6 gennaio 1885, si ritrova pienamente.

(Nino Barbieri)

Clemente Rebora, Il tuo Natale: lettere, poesie, pagine di diario e inediti, a cura di Roberto Cicala e Valerio Rossi, Novara, Interlinea, 2005, pp. 139, € 10.

Mappe #5

«Il millennio / lasciato per un’epoca diversa». Su L’amore e tutto il resto di Andrea Temporelli

Sul filo vertiginoso del pensiero, tra slittamenti e infiniti nascondimenti si muove la poesia di Andrea Temporelli – tra i fondatori della storica rivista letteraria militante «Atelier» – inseguendo una «chimica grammaticale» fatta di nomi personali, «segni» e «solchi» incisi in un vissuto carico di smarrimenti, preghiere, passioni, battaglie e scontri frontali con la storia. L’amore e tutto il resto, «costellazione provvisoria» di tutta la produzione poetica di Temporelli – alias Marco Merlin – ci conduce in una vasta e appassionata esplorazione di sé e del mondo, lì dove è ancora forse possibile «fare paradiso / di questa terra marcia». Quando l’energia vulcanica dell’intelletto sa sciogliersi in luziana naturalezza anche l’amore inseguito a lungo in queste pagine può farsi finalmente limpido: «Tu sei gli anni più belli della vita, / gioventù che non torna, / e l’amore, l’amore senza fiato. / Tu sei slancio e ferita / Presto sarai la piega delle labbra, / il solco accanto agli occhi e l’alta fronte. / Il tuo regno è di sale che corrode. / Sei la perdita in cui avanzo, il millennio / lasciato per un’epoca diversa. / Sei il proiettile puntato alle spalle / che non esplode».

(Massimiliano Mandorlo)

Andrea Temporelli, L’amore e tutto il resto, Novara, Interlinea, 2023, pp. 127, € 14.

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