Nel crocevia. Avanza un’ora di luce di Enzo Cannizzo
“Che sia un libro speciale”, nel tempo torbido in cui viviamo o crediamo di vivere, perché i tempi sono sempre gli stessi, rutilanti e affollati, fangosi, sovraffollati e verbosi come le strade del centro della nostra città. A quelle strade Enzo Cannizzo è ancorato e libero, inchiodato in un angolo e con le ali spalancate nel crocevia. Un guerriero, come l’Archiloco che ha scelto in esergo, che disarma la retorica e dice la frantumazione della guerra, il suo esaurirsi. Che “la poesia è profezia del presente” lo dice a mezz’aria, parafrasando qualcuno tra un tavolo e l’altro, appena prima di spostarsi con permesso. Resta un servizio, ma innanzitutto a sé stessi, senza infingimenti, pose o assoluzioni: un nuovo libro per voltare le spalle all’arena e alla prigione del compiacimento, del riconoscimento del mondo delle lettere, della chiacchiera. Scrivere poesie, va bene, ma per cercare senza arrendersi un’accoglienza della vita. Gli occhi non puntano sulla poesia ma su ciò che accade prima e dopo e che resta ulteriore. A volte, quando questa dinamica si coagula fino a spaccare la lingua di parole, resta la traccia formale di un sedimento (concreto sedimento di luce sanguigna), e quel pensiero dominante è ormai compiuto e non trova più niente da bruciare: le parole e il ritmo allora si fanno evidenti, mettono a fuoco non sanno più forse nemmeno cosa, tanto più grande e potente è la vita che attraversa il più piccolo e oscuro vicolo della città, il libro è una scheggia arroventata che si può maneggiare, si può pubblicare. Anche Avanza un’ora di luce possiede il tempo sfinito dei libri di poesia, e di nuovo Cannizzo ci offre uno strumento che di nuovo tiene a bada l’abisso o, come scrive in questo libro, mette a dormire la notte.
Nella poesia che dà il titolo alla raccolta, là fuori avanza un’ora di luce sono dieci sillabe che resistono alla presa: è il verbo che significa “resta”, si capovolge nel suo contrario, e indica che fra un’ora sarà buio. La luce avanza, ma viene incontro il buio. Il movimento inizia dall’interno della casa, di stanza in stanza, poi giunge alla città nel momento in cui si affievolisce la sua voce fino a spegnersi. Allora lo sguardo, senza preavviso, si proietta avanti, là fuori. È un atto ingiustificato. Cosa spinge oltre, come intendere questo debole e improvviso partirsi lontano, e cosa illuminano gli ultimi due versi, quella puledra di pietra / e zoccoli fasciati: delineano i contorni di chi patisce e langue, ed evocano in chiusura delle bende che proiettano il bianco, un bagliore ancora, sulla terra, sugli esseri che la abitano, sui liquami e sull’erosione buia che sembra invincibile. Nella prima sezione, che è piovosa ed apocalittica, lo sguardo tocca una realtà esausta, avvenuto il disastro. Tutto appare nel suo crollo, ampolle esplose, crepe aperte, un cielo caduto, l’offesa quasi insostenibile di un aprile veramente crudele. C’è una risposta che accade e non pare vera: la risposta di maggio fu la rosa / la sua carne puntuale. Recuperare così un’immagine tradizionale della poesia, assegnarle una caratteristica nuova: “puntuale” è la tempestività e la definitiva estensione della rosa, tornata per la terza e ultima volta in questa prima sezione. Dove si sente per la prima volta un movimento che tornerà insistentemente nel libro, su cui tutta l’ultima sezione è poggiata: l’elenco ternario e quaternario, martellante e scazonte, che non esorbita mai il singolo verso (ma che apparirà in più versi posti in sequenza) e ruota sempre attorno all’endecasillabo. Si tratta della pulsazione sotterranea del libro, una marea terrestre che agita e lega insieme le sezioni: ferro forra carcassa è la sua prima occorrenza, ma innumerevoli saranno quelle successive. Accostamenti di suono, di timbro e di immagini evocate, come in un lungo soundcheck prima del concerto, in cui si deve accentuare gli errori per capirli ed, eventualmente, nasconderli. La forza e l’incompiutezza del libro è il continuo elencare, che prova l’accordatura, il possibile fraseggio, la capacità armonica, con risultati sorprendenti. Il fascino di questi versi è nel loro assoluto movimento, nelle soluzioni sempre diverse: barlume cosa muta rosapiaga, fosforo bitume rifrazioni, polvere corpuscolo frequenza, il papavero la serpe la rugiada, allume ellissi lumen, l’ovvio l’insulso il grassatore, dupont longines linetti. Il ritmo e la bellezza di queste inserzioni si impone presto sui testi a cui appartengono, diventando così un’unità di misura, un metro di paragone per gli altri versi più animati e mossi. Matura così, nella lettura, l’attesa dei verbi, anche indefiniti, che giungono a innescare nuove prospettive, a redimere la stasi e l’accumulo, a spalancare un orizzonte più ampio per dare direzione ai detriti: le rovine i cocci il vasellame / gli scaloni le stanze le botteghe / emersi dalla piena alla pianura. È la stessa pianura che dà il titolo, maiuscolo e corsivo, alla seconda brevissima sezione, che fa prendere il respiro tra le due estreme: sono in tutto tre poesie, che si legano alle altre due poesie in corsivo del libro, nella sezione successiva. Cannizzo non ci ha detto tutto, ha posto una trama sepolta e oscura in questo suo libro-soundcheck, spaventoso e calibrato, sapiente e senza approdo.
(Pietro Cagni)
Enzo Cannizzo, Avanza un’ora di luce, prefazione di Miguel Ángel Cuevas, Viagrande (Catania), Algra, 2023, pp. 76, € 9,50.
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