Autore: Pietro Russo

Mappe #8

Articolo in evidenza

Il fiato caldo della poesia: Niente di tiepido di Iole Toini

Recita un passo dell’Apocalisse (3, 16): «Poiché sei tiepido, né caldo né freddo, mi appresto a vomitarti dalla bocca». Una vita incosciente del proprio essere ancorata al sangue che fiotta nelle arterie e allo sfondamento della luce nella retina è, allora, un’esistenza votata al rigurgito del niente. «Più terrena di così non sarà mai, lo sa. La strada è quella giusta», scrive Iole Toini a inizio di Niente di tiepido (p. 7), mostrandoci un’apertura, un cretto, una strettoia nella roccia che il corpo-anima del lettore è chiamato a seguire. Con il metro alterno del verso e della prosa Toini ci alita addosso un fiato caldo di sapienza esperienziale («È vero quindi, si può toccare Dio e la sua altitudine», p. 8) che si nutre di una vocazione panica («Se tutto fossi di niente, mi leverei oltre il siero della luce a toccare il molto dei volti, l’ordigno che dà fuoco al canto», p. 19), declinata anche e non meno vigorosamente al mondo delle relazioni umane («Quando amo una persona, la persona entra nelle ossa. Il mio corpo cammina col suo corpo, la mia bocca diventa la sua bocca», p. 43). Niente di tiepido è un libro in stato di grazia, laddove questa grazia è data dalla tensione cristallina di una creaturalità che convive con il disfacimento della materia, con la violenza della putrefazione carnale e, al contempo, con conati inarrestabili di gratitudine e tenerezza verso ciò a cui lo sguardo si rivolge: «Il volto di un uomo affonda la terra. / Il corpo di un bimbo affonda l’uomo. / La terra sprofonda. / Tenerezza, oh, tenerezza» (p. 29). Se è vero che le doglie di quel parto infinito che è la creazione (S. Paolo) non negano la possibilità del non venire alla luce, allora chi si ritrova sotto il cielo ha il compito di non essere tiepido come un aborto di vita, ovvero di far esplodere la gola con un canto all’altezza di ciò che è consegnato all’esistere e poteva non esserlo.

(Pietro Russo)

IOLE TOINI, Niente di tiepido, Locorotondo, Pietre Vive Editore, 2023, pp. 54, € 10.

Mappe #4

Sperare con gli occhi di Borges: Quando i diavoli si svegliano dèi di Jòn Kalman Stefànsson

Un piccolo appartamento di Reykjavìk può essere il centro del mondo, ovvero di un mondo contemporaneo che tanto assomiglia «all’anticamera dell’inferno» (p. 63) dove «non è più possibile / distinguere Dio da Satana» (p. 67)? Per Jòn Kalman Stefànsson, poeta e scrittore tra i più apprezzati del panorama islandese, stando alle poesie di Quando i diavoli si svegliano dèi, non ci sono dubbi. La tosse del vicino, la vista di un crinale di montagna, l’inquinamento globale, un naufragio sulle coste della Sicilia entrano nello spazio familiare del poeta, intento ad ascoltare un disco di Tom Waits con un buon bicchiere di whisky, e chiedono di essere accolti come una domanda ineludibile, urticante. Sembrerebbe che non rechino nessuna nuova sotto il sole islandese che, dalle nostre latitudini meridionali, immaginiamo splendente anche a mezzanotte. E invece, ascoltandoli con il perfetto dosaggio di amore e ironico disincanto di Stefànsson, ci ricordano che siamo esseri aggrappati alla speranza, e che «abbiamo davvero bisogno di fare affidamento su tutto / ciò che si innalza, che fende / il buio, che accoglie più luce, / e ci offre una prospettiva // perché la prospettiva / amplia la visione del mondo» (p. 29). La stessa visione del vecchio Borges, «morto nel buio che lo attendeva / forse con occhi nuovi» (p. 43), forse con la saggezza di un uomo che ha visto le ragioni della vita più forti di quelle della disperazione.

(Pietro Russo)

Jòn Kalman Stefànsson, Quando i diavoli si svegliano dèi, trad. it. Silvia Cosimini, Iperborea, Milano, 2023, pp. 160, € 17.

Mappe #2

Candiani, il bosco dove perdonare le parole

Al confine tra la storia e la metafisica, l’esperienza della natura è la soglia di un sentire religioso in cui l’incontro Io-Altro si manifesta con maggiore intensità. Ce lo ricorda – a noi tiepidi abitanti di città globali – Chandra Candiani con il suo Pane del bosco, nutrimento di una domanda insaziabile che, invece di una risposta, porta in dote la disposizione all’ascolto, «Il punto in cui si smette di cercare / e ci si dispone a essere trovati» (p. 130). Non per questo, però, il bosco è un luogo idilliaco: il conflitto (che è ben diverso dalla guerra umana) attraversa le stagioni naturali incidendosi sulla corteccia degli alberi e nelle orme degli animali, quindi dialogando con le inquietudini di un’umanità che ha smarrito il proprio posto nel mondo. «Vado al bosco per perdonare le parole» (p. 10), scrive Candiani, suggerendo la strada di un apprendistato al linguaggio che intende rinnovare i voti (traditi) di un antico patto. E infatti altrove si legge: «Ti hanno posato una parola in mano / non renderla rispettabile, spargila / non lasciarla bruciante in gola» (p. 49). Il rispetto della natura – genitivo soggettivo – non è la rispettabilità sociale perché niente è naturalmente dovuto, o ereditato una volta per sempre; il bosco non ci si pone mai davanti come il luogo dei fatti, piuttosto come lo spazio di un fare molto prossimo al poiein delle narrazioni umane.  

(Pietro Russo)

Chandra Candiani, Pane del bosco (2020-2023), Einaudi, Torino, 2023, pp. 152, € 12,50.

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