La figura di Dante vista con gli occhi di Giovanni Boccaccio

All’età di 84 anni, Pupi Avati ha deciso di mettersi alla prova con un compito “da far tremar le vene e i polsi”, (la citazione l’ha fatta lui stesso in una delle presentazioni del film). Affrontare la vita di Dante facendone un prodotto didascalico o scadere nell’enfatico sarebbe stato molto facile, ma il regista bolognese dalla lunga carriera si è saputo mantenere su un percorso lineare e sobrio che, pur con qualche cedimento ai luoghi comuni sul Medio Evo e qualche trascuratezza narrativa, riesce egregiamente a farci comprendere lo spirito del tempo in cui la storia si svolge.

Il regista utilizza come traccia un romanzo da lui stesso scritto, il recente L’alta fantasia. Il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante (Solferino). Il racconto è una sorta di diario dello scrittore Giovanni Boccaccio (Sergio Castellitto), incaricato nel 1350 dai Capitani di Orsanmichele – la confraternita che radunava le corporazioni fiorentine – di raggiungere Ravenna e consegnare a suor Beatrice (Valeria D’Obici), figlia di Dante, la somma di dieci fiorini d’oro, a titolo di risarcimento per i torti subiti dal padre: la condanna, la confisca di tutti i beni, la minaccia del rogo se si fosse ripresentato a Firenze, l’esilio che lo vide ramingo per le signorie d’Italia.

Il compito che Boccaccio si assume, e il viaggio che ne consegue, anche se per un uomo nemmeno quarantenne, sono per lui quasi il compito della vita (e come ogni uomo coscienzioso del suo tempo, prima di avviarsi anche solo da Firenze a Ravenna, fa testamento).

Il profondo legame che Boccaccio sente nei confronti di Dante si riflette nelle aspettative per l’incontro con l’ultima testimone della vita del Poeta, figura venerata come un padre che non si è mai conosciuto di persona, ma che risulta sempre presente. Il viaggio, svolto in compagnia del fido Donato (Enrico Lo Verso), è un percorso che gli permette di imbattersi in chi diede riparo e accoglienza a Dante mentre era in fuga. Boccaccio sosta negli stessi paesi, nei castelli, nei conventi; ad ogni sosta il regista attraverso dei flashback ricostruisce la vita di Dante: la giovinezza (qui Dante è interpretato da Alessandro Sperduti), l’incontro con Beatrice (Carlotta Gamba) e il suo innamoramento, fino alla morte di lei. Poi l’amicizia con Guido Cavalcanti, l’accettazione di incarichi pubblici per poter mantenere la famiglia, l’impopolare decisione di bandire da Firenze anche l’amico Guido per scongiurare altre battaglie, scelta che gli attirò l’avversione di Papa Bonifacio VIII e dei governanti della città.

La scelta degli interpreti è quanto mai centrata: Castellitto incarna un Boccaccio conscio dell’importante incarico “civile”, ma al tempo stesso timoroso ed emozionatissimo ad ogni incontro che gli permetta di saperne un po’ di più su quell’uomo di cui egli stesso continua a ripetere “mi è padre”. Enrico Lo Verso è una spalla discreta ma precisa, come pure gli altri interpreti di tutti gli incontri (ed è bello che di Paolo Graziosi e Gianni Cavina questo resti l’ultimo ricordo al cinema, essendo scomparsi poco dopo le riprese). Qualche perplessità la suscita la scelta di attrici chiamate a impersonare donne anziane ma che mostrano evidentemente sul viso l’opera del chirurgo plastico, che genera un’impressione veramente stridente.

Avati ripropone nel film un’immagine del Medioevo già esplorata in altri suoi film come Magnificat I cavalieri che fecero l’impresa, rappresentando un mondo con interni bui e scarni, nel quale il regista alterna scene oniriche (come quelle che riguardano il rapporto di Beatrice con Dante) e invenzioni volutamente inquietanti, come la bambola crepata che fu di Beatrice e che Boccaccio compra per la figlia. L’impianto, a volte un po’ troppo televisivo (giustificato probabilmente dalla futura destinazione dell’opera) si riscatta però in un finale realmente poetico e anche visivamente commovente.

Beppe Musicco

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