Tag: Poesia contemporanea italiana

Mappe #26

Lo “sguardo straniero” del poeta: Questa notte non posso aprire gli occhi di Leda Erente

Come guarda un poeta? La domanda, solo apparentemente oziosa, si ripropone dagli albori delle comunità umane e va al cuore di una questione cruciale. Anche quando il poeta chiude gli occhi per affidarsi a una visione “altra”, per esempio impastata di sogno e di speranza nell’avvenire, giunge a un grado di comprensione che tocca il fondamento misterioso della realtà. Questa notte non posso aprire gli occhi di Leda Erente è quasi un manifesto della “cecità” profetica della poesia che vede ben al di là del visibile. Tiresia o Omero, il poeta qui «richiama gli uccelli a disperdere i suoi versi» (p. 28), ovvero innalza un canto di lode e d’amore a emulazione dei volatili: «mi farò ciotola per raccogliere il tuo verso / e risuonare nel vento» (p. 20). Anche con gli occhi non aperti il poeta «ha la vista del gheppio», come scrive Erente in uno dei testi più belli del libro: «Il tuo amore mette radici. / Ha la vista del gheppio che porta ad afferrare le cime / a contemplare una stella coperta di neve» (p. 37). Come un mendicante affamato di senso e verità, Leda Erente compone dunque un Cantico randagio che bussa con insistenza alle porte del cielo («tutta la notte ho bussato», p. 46) per far coincidere la più radicale delle domande con l’afflato da cui scaturisce la poesia: «Dove sei amore?» (p. 40). Se è vero che lo sguardo del poeta è  «straniero» poiché «diverge dal mondo» (p. 55), la scrittura di Erente procede per interrogativi che sono, in ultimo, la cifra di uno stupore bambino, vala a dire di chi si accosta con semplicità a una realtà che non è mai un possesso personale («non del tutto nostro il respiro / non del tutto nostro il battito del cuore», p. 29), bensì un dono per cui ringraziare aprendo «la porta al canto / alla sorgente di luce» (p. 96). E laddove Erente non riesce ad aprire gli occhi, è qualcun altro a farlo per lei. Essere guardati, infatti, è la speranza che infonde ali e canto alla poesia: «Senza il tuo sguardo non possiamo essere interi. / […] / La mia bocca è colma di gioia // Mi lascio cadere» (p. 89). Con questa fede Leda Erente, poeta, guarda il mondo.

(Pietro Russo)

Leda Erente, Questa notte non posso aprire gli occhi, Prefazione di Massimiliano Bardotti, Firenze Libri, Firenze, 2025, collana “Fuori stagione”.

Mappe #25

La materia verticale di Imperatrice Bruno

Un vortice di forze centripete si agita e si dibatte incessantemente nella poesia della giovane Imperatrice Bruno (Ariano Irpino 2001) che colpisce per la tensione che attraversa i versi della sua Materia verticale, un viaggio incandescente attraverso le regioni oscure ed enigmatiche dell’esistenza: «La tua natura è del sole che esplode / e che per sua natura esplode / per riesplodere / e così il muschio che ti circonda / si brucia, / i rami che a tua cornice vorrebbero vantarsi / si chinano invece ai tuoi piedi, / ogni essere grida di sorpresa e di paura / la tua natura è il profondo sud del mondo». Ha ragione Pontiggia, introducendo questo libro di ardenti e audaci visioni, a parlare di un daimon, di una «voce che detta, assegnando un destino, liberando forze che giungono da un tempo lungo. E che si muovono tra opposte tensioni, congiungendo ciò che è separato e discorde». Siamo condotti in universo ctonio, in una dimensione primitiva e mediterranea abitata da oscuri segnali e brucianti profezie: «Marzo sarà il ritorno della gente di mare, / si alzeranno i toni con Atlantide in bocca, / si chiederà dei poeti delle notti nei porti; / i poeti nascono nei porti, portano alle labbra / labbra di dolore, mani bagnate, / portano agli occhi tavole dure, / hanno la lingua bruciata». Chi scrive ci conduce sulla soglia dell’indicibile, lì dove tutto sembra vacillare e anche la parola trema, in un tempo visitato da misteriosi annunci: «Ormai è finito il nostro tempo, / tremano / i polsi sui fianchi; / nel sonno lieve / mi levi gli orecchini, / soffio che spegne / ceri bianchi».

(Massimiliano Mandorlo)

Imperatrice Bruno, Materia verticale, prefazione di Giancarlo Pontiggia, Piazza Armerina, Nulla die, 2024, pp. 120, € 15.

Mappe #24

Poesia presenza del mondo: L’attenzione di Angelo Andreotti

La poesia come soglia di attenzione dove non-più e non-ancora rinnovano la possibilità dello sguardo e quindi le parole del passaggio umano. Questo ci suggerisce Angelo Andreotti, poeta ferrarese morto da qualche anno, in L’attenzione (puntoacapo, 2019), libro dall’incedere sommesso e misurato che però non intende eclissare la commozione dell’incontro tra esperienza soggettiva e realtà circostante: «all’aurora / è in te stupore. | E il quieto abbandono / dei primi altissimi voli, librati / nell’aria ancora tutta da provare, / ti è riposo nell’anima / e attenuano la paura di te stesso / nascosto dentro a un luogo profondo / che non ti è centro, neppure salvezza» (All’aurora). L’orizzonte salvifico qui sembra essere quello di una parola che si affaccia sul bianco del foglio non come esercizio di letteratura ma come traduzione del «ritmo dei tuoi passi» (Gestazione) che pone alla luce un essere nel mondo sempre situato, nella «tua nudità / quando sei tu a prender gioia dal mondo» (Dialoghi). Interrogando un taglio di luce crepuscolare – ma nell’accezione data alla poesia di Gozzano&Co., ovvero tanto di inizio quanto di fine del giorno – così come le ore notturne tradizionalmente più inquiete e fertili per l’anima, Andreotti ci invita a un viaggio heideggeriano che si fa cura delle ferite del mondo che portano tutte lo stigma de L’indifferenza («Se soltanto sfiorassi quella vita»), di una momentanea caduta del nostro essere al mondo creature presenti, compassionevoli, poetiche: «Se qui, come se questo fosse il mondo, / ed è il mondo, il tuo mondo» (Presenza). Nonostante quella che sembra una naturale vocazione al rimanere all’ombra, il poeta non viene meno al suo compito di cercare un terreno di incontro in cui la propria esperienza risuoni in quella dell’Altro e viceversa, un’«ora che ci è comune ad entrambi / e ci accoglie e ci tiene qui insieme, / […] / in quest’ora in cui ha luogo il vero» (La condivisione). È lo stesso kairos della poesia sancito dalla citazione in chiusura di Simone Weil: «L’attenzione è la forma più rara e più pura della generosità. A pochi spiriti è dato scoprire che le cose e gli esseri esistono».

(Pietro Russo)

Angelo Andreotti, L’attenzione, prefazione di Antonio Prete, Pasturana, Puntoacapo, 2019, pp. 92, € 12.

Mappe #23

Le ragioni del canto di Massimiliano Bardotti

A lettura ultimata di A noi basti la gioia di cantare (peQuod, 2025), immagino l’autore, Massimiliano Bardotti, come la corda di uno strumento tesa nello spazio infinito dell’universo. In questo modo il Grande Cantore, pizzicandola, rinnova l’opera della creazione tramite le parole del poeta: «Si sospende così il tempo / come non ci fossero più cose accadute / e cose sperate, solo un presente / in cui tutto è avvenuto per sempre. // E per sempre canta: “ora”». Se il fare-dire della poesia non si mette a servizio di questa verità, che combacia con un’esperienza di fede nel mondo, quale traccia del nostro passaggio lasceremo? Il libro di Bardotti sembra inchiodarci continuamente a questa domanda; i versi e le prose che lo compongono possono quindi essere letti come una “meditazione” sulla morte che non ha (e non vuole avere) nessun orpello intellettuale, logico-razionale. Il punto da cui scrive il poeta è, infatti, una misura assolutamente soggettiva e universale allo stesso tempo: «Appartengo a quell’ultimo respiro / dal quale sono nato». Forte di questa appartenenza, Bardotti – “pellegrino russo” in latitudini toscane – va alla ricerca di una fonte inesauribile di senso, trovandola infine nella gioia di un cantare aperto e ferito come una preghiera: «Fammi tutto amore / non resti di me neanche una traccia, / solo amore e nulla più». Tuttavia non si pensi, erroneamente, che l’universalità (e l’universo) del canto del poeta sottragga luce alla realtà della storia e degli affetti terreni; la vita coniugale, l’amicizia, le fusa della gatta-filosofa Etty che insegna a «praticare» la felicità, le difficoltà e la fatica del quotidiano non sono un mero sfondo o una “occasione” poetica, anzi essi emergono come il terreno fertile e necessario che prepara la voce al dispiegarsi del canto. Perché, come scrive Bardotti, «e forse è già essere salvi / abitare il cuore degli altri / per accoglienza». Con questa certezza, ci facciamo allora bastare la gioia di una bocca che si apre per essere all’altezza del Creatore.

(Pietro Russo)

Massimiliano Bardotti, A noi basti la gioia di cantare, Ancona, peQuod, 2025, pp. 104, € 14,25.

Mappe #22

Anche Dio trema e non dorme:

di queste mie notti insonni di Luca Pizzolitto

I poeti sono persone che fanno “il turno di notte”, come diceva Izet Sarajlić, vegliano sulle rovine ma anche sulle gioie del mondo; per questo l’insonnia che contraddistingue il loro operato è molto spesso un distillato d’oro che anticipa la prima luce del giorno. Sicuramente ciò si può dire di Luca Pizzolitto, il quale fa dono agli amici di un libretto fuori commercio edito da peQuod in tiratura limitata (50 copie), di queste mie notti insonni (la minuscola è del titolo).

Il sottoscritto, che ha il privilegio di godere dell’amicizia di Pizzolitto, si ritrova dunque tra le mani una copia del corpo a corpo del poeta con le ore della notte, le più ricche di agonia per la carne e di frutti per lo spirito, secondo l’esempio che rimanda alla semantica del Getsemani già sviluppata da Pizzolitto nel precedente libro. Ogni poesia contenuta in di queste mie notti insonni è, si potrebbe dire, un’oliva che noi “visualizziamo” nell’attimo esatto in cui viene schiacciata affinché sgorghi la prima goccia di olio: «È qui che si compie / l’esistere di ora, / il mio ritorno a casa». Dal frantoio della notte («nero inferno della notte») il poeta non sembra intenzionato ad uscire prima di aver compiuto il passo iniziale sulla via del ritorno che porta una chiara missione: «Alzati, ora; veglia la notte e il canto». E così l’olio della poesia va a sanare «il fianco trafitto d’abisso», «il fianco offeso della bellezza» di chi si pone davanti alla vita senza schermi, con l’irrequietezza di chi cerca – «randagio in terre di misera gioia» – quell’«inizio di tutte le cose» che coincide infine con un vastissimo «silenzio» che tacita intenzioni e false promesse. La prerogativa di questo luogo aurorale, che Pizzolitto ci mostra scarno come pietra e apparentemente inospitale come un deserto, è che non occorrono parole – neanche quelle, bellissime, dei poeti amati (Turoldo, Guidacci, Hillesum, ecc.) e qui chiamati a dialogare con i testi più autobiografici della parte centrale del libro – perché l’unica verità da enunciare – evidenza e certezza che giunge con la luce dell’alba – ha un fragore che sconquassa le budella dell’essere: «Anche Dio trema davanti / agli occhi di un bambino».

(Pietro Russo)

Luca Pizzolitto, di queste mie notti insonni, Ancona, peQuod, 2024, edizione fuori commercio.

Mappe #20

La rovina e lo stupore, quasi una preghiera: L’estremo forte degli occhi di Cettina Caliò

Le parole, quando sono misurate, muovono dal respiro e dal battito cardiaco. Lo sa il monaco che con la  ‘preghiera del cuore’ raggiunge l’Irraggiungibile e lo sa Cettina Caliò artefice di una poesia pneumatica in cui la versificazione scarna e la sillabazione franta, che da sempre contraddistinguono la sua scrittura, sono al servizio di una ricerca del respiro – e qui il genitivo è da intendersi tanto come soggetto quanto come oggetto. Non fa eccezione il suo ultimo lavoro, L’estremo forte degli occhi, dove la «magrezza del fiato» della poeta si cala negli abissi della presenza e «nello spavento della durata» (p. 17). Se vogliamo, possiamo intravedervi il filo di una catabasi, uno scandaglio del pneuma-respiro nelle scaturigini del proprio manifestarsi: «il fiato, il mio ha bisogno di indugiare sull’impronta del passo» (p. 18).

Questo “viaggio” di Caliò, forse iniziatico (in un senso che denota un nuovo inizio timidamente crivellato di luce) «attraverso il giorno che / da tutte le parti cade» (p. 29), è un approssimarsi all’esattezza del respiro («Come il fiato esatto dal peso», p. 33) mediante la complicità di una parola che sta «sul ciglio labile del nulla» (p. 35) elevato a prospettiva: «per incredulità mormorare Dio / nel buio schiantato di una stanza // e rintracciare la vita / là dove era da mai / che forte così si respirava» (p. 34). Se di ri-nascita si tratta, il titolo del libro è allora una dichiarazione di resa preliminare agli intenti di poetica: «l’anima crolla / dentro il tuo respiro // nell’estremo forte degli occhi / mai si stanca la sorte di accadere» (p. 36).

Il movimento della poesia di Cettina Caliò, volto a scoprire «del corpo / uno spazio sotterraneo / e disabitato» (p. 39), ha come asse principale questo dentro a cui la realtà esterna sembra aggrapparsi nell’estremità della visione. Il respiro è confine labile che non si lascia tracciare in positivo: «in moltitudini di fiato / imparo per negazione» (p. 49). Difetto, smottamento, crollo: la semantica della “rovina” trova dunque in L’estremo forte degli occhi tutta una declinazione del fallimento del fiato («per poi scoprirci / sfiatati», p. 54) salvo poi accorgersi – in extremis, appunto – che «la stessa bolla d’aria che d’improvviso strozzava il respiro e in spasimi minacciava la vita» (p. 62) è una caduta ma non una disfatta («passa tutto / e resta», p. 70) perché sempre ci è assicurata la possibilità dello «stupor», dello stupore che tramuta lo sfracello in grazia: «In quel poco di vento / ruvido del mio respiro / c’è sempre qualcosa che sei tu // che sempre mi stai pulsante / sulle tempie come perpetuo / avvento» (p. 73).

(Pietro Russo)

Cettina Caliò, L’estremo forte degli occhi, Milano, La nave di Teseo, 2024, pp. 80, € 11,99.

Mappe #19

«Perché voglio omaggiare la vita». Lo spirito cuoce di Francesco Vitale

Una sorta di slancio e dinamismo di forze in movimento abita la lingua e la poesia di Francesco Vitale, giovane poeta di origini calabresi che osa per il suo libro di poesia – con una certa libertà al di fuori di certi modelli retorici e letterari – un titolo sicuramente insolito ed enigmatico, Lo spirito cuoce. Vitale cita in epigrafe un verso di Franco Loi e forse proprio Loi avrebbe apprezzato per libertà di spirito e capacità di contaminazione alcuni dei testi più riusciti – penso alla sezione Vita aperta – di questo libro: «Sono le diciannove e trentadue / e salto / perché voglio omaggiare la vita. / La cena è pronta / e il mio stomaco sorgente / richiama all’adunata / la fame. […] / Tutto è pronto / Accaduto / allo stesso modo / del dì di ieri / e il mondo è felice. / Per l’ennesima volta / non si è smentito». Vitale si interessa di musica, fotografia, cinema, letteratura giapponese e haiku e in questo libro eclettico si mette alla ricerca, spinto da un suo ritmo interiore, di quella crepa che si apre nelle cose minime ed umili e le attraversa, spalancandole alla luce: «Crepa che si apre alla luce / è bagliore è lampo / attimo di sterminata aria / fiato grande / che circonda e abbraccia / il respiro del mondo / e porta a bere la sete / di ogni particella piccola / di ogni principale nascita». Ed è appunto il mistero e la potenza della vita ad ardere e bruciare in questo libro intessuto di parole-costellazioni che celebrano senza timore una ritrovata e primordiale armonia per cui le cose possono diventare “sorelle”, in una sorta di moderno cantico francescano che aspira a cantare il «trionfo della vita / in alba grande». Omaggiare la vita, sembra che questa sia per Vitale la sorgente da cui nasce anche la poesia, quel fuoco silenzioso che fa lievitare spirito e materia: «Il mio silenzio è d’oro. / Ho ventiquattro karati di silenzio / per cento per cento per cento. / Il mio silenzio sta / sul tempo della lievitazione / è fatto di pane e farina / è grano è pagliuzze / e cuoce a fuoco lento».

(Massimiliano Mandorlo)

Francesco Vitale, Lo spirito cuoce, Roma, Edizioni Efesto, 2023, pp. 110, € 13,50.

Mappe #17

«La gioia di un pensiero nascente»: Lo sguardo che si alza di Maria Grazia Maiorino

Un pensiero nascente, una sorta di letizia ritrovata nello sguardo attraversa la poesia di Maria Grazia Maiorino – bellunese ma trasferita da anni ad Ancona, con già alle spalle varie pubblicazioni di poesia, racconti e saggi di critica letteraria e collaborazioni con numerosi artisti – come la luce che torna a sfolgorare sulla città di Urbino in un giorno di festa: «segreto fra le torri come un chiostro / il giardino pensile si apre ai verdi / delle colline oltre le grandi finestre / aiuole intorno alla fontana garofanini / in fiore un profumo di rose indovinato / e altri alberelli di melograno / e tutto è lento vacillare e apprendersi / come la gioia di un pensiero nascente». Di sguardi tesi «lì dove abita la luce» è tutto percorso questo libro, nelle visioni trepidanti di un’arte che va dalla basilica di S. Eustorgio a Milano con la sua «stella / di Betlemme splendente sul campanile» al volto ligneo martoriato della Madonna di Nagasaki sopravvissuta all’atomica, alla Terra Santa con le sue annunciazioni e Magnificat fino ad arrivare ad un’incredibile e affascinante prosa dedicata ad una visita solitaria alla Pinacoteca di Ancona, dove nella visione della Pala Gozzi di Tiziano presente e infanzia si saldano miracolosamente: «Ti porta un vento nella mattina di marzo, passi veloci attenti alla strada e lo sguardo che ogni tanto si alza verso l’azzurro insolitamente terso tra le case, richiamo di un’altra luce, scende dalle montagne sulla tua città natale, detta la splendente – è quell’impronta dei ricordi più lontani, riconosciuta nell’età adulta, ora ti sembra di portare con te un lembo del mantello di Elia lasciato cadere dal cielo». Nella magia della pittura e della poesia segno artistico e parola si rincorrono, si compenetrano, e in questo mistero di bellezza a cui anche l’autrice alza lo sguardo e nuovamente si abbandona l’orizzonte può finalmente dilatarsi, in una sorta di mistico spalancamento: «L’Adriatico è un grande golfo di sponde che si amano, Venezia non è superba regina ma repubblica marinara sorella di Ancona e Ragusa, il fico si tende fra celeste e terrestre, luce e ombra di arcobaleno, la Madre con il bambino benedicente e i suoi angeli continuerà ad apparire, attirando i nostri sguardi, come quelli dei tre personaggi del quadro, verso orizzonti più grandi».

(Massimiliano Mandorlo)

MARIA GRAZIA MAIORINO, Lo sguardo che si alza, postfazione di Paolo Lagazzi, Bergamo, Moretti&Vitali, 2022, pp. 102, € 10.

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